Allo scoccare della mezzanotte del 1 dicembre, l’Armenia ha consegnato all’Azerbaigian il distretto di Lachin. Si è concluso, quindi, lo scambio di territori definito dal trattato di pace dello scorso 9 novembre che ha sancito la fine dei 44 giorni di guerra tra Baku e Erevan per il controllo del Nagorno-Karabakh. Le conseguenze del conflitto si fanno ancora pesantemente sentire nei due paesi, i cui abitanti sono alla ricerca di una nuova normalità in un contesto completamente diverso a quello a cui sono stati abituati per trent’anni.
Azerbaigian, trionfo e problemi
In Azerbaigian è un momento di grande entusiasmo. La sconfitta con l’Armenia nella guerra degli anni ‘90 e la conseguente perdita del controllo sul Nagorno-Karabakh costituivano, infatti, una sorta di trauma nazionale. Grazie alla vittoria, il presidente Ilham Aliyev sta vivendo il suo momento di maggiore popolarità da quando è succeduto al padre alla guida del paese nel 2003. A partire dal 16 novembre, Aliyev e la vicepresidente (e moglie), Mehriban Aliyeva, hanno visitato alcuni dei territori riconquistati, evento che ha riscosso una vasta eco mediatica.
L’entusiasmo si affianca a diversi interrogativi su quello che aspetta il paese. In primo luogo, cosa fare con le regioni sottratte al controllo armeno; Aliyev ha annunciato una vasta campagna di ricostruzione per “riportarci la vita”. Gran parte dei territori passati in mano azera costituivano “la cintura di sicurezza” a difesa del nucleo popolato del Nagorno-Karabakh. Per questo motivo, gli investimenti armeni nella zona si erano concentrati sulle opere di difesa, mentre i centri abitati, che prima della guerra degli anni ‘90 avevano una popolazione quasi esclusivamente azera, sono rimasti per lo più disabitati. Il simbolo, per eccellenza, di questa devastazione è Aghdam, abbandonata dai suoi 40mila abitanti durante la guerra degli anni ’90 e trasformatasi in una enorme città fantasma.
Secondo le stime di Eurasianet, i dati ufficiali non sono pubblici, per la ricostruzione ci vorranno dieci anni e 12 miliardi di euro. Oltre alle case, sarà necessario, costruire strade, ferrovie e quant’altro per rendere l’area abitabile. Una complicazione non trascurabile la costituiscono le mine, come dimostrato lo scorso 23 novembre dalla morte di un soldato azero e il ferimento di cinque persone – tra cui un peacekeeper russo – impegante nella ricerca dei cadaveri delle vittime dei 44 giorni di guerra.
Altri problemi derivano dalla mancanza di trasparenza sul numero dei soldati azeri caduti, visto che Baku non ha mai comunicato cifre al riguardo. Come scrive Radio Free Europe, molte famiglie sono ancora all’oscuro del destino dei propri cari mai tornati dal fronte. Il 20 novembre, a Lankaran, nel sud dell’Azerbaigian, si sono registrate proteste quando i parenti di Aflatun Farajov, un giovane ufficialmente caduto vittima di un incidente stradale, hanno trovato proiettili sul corpo del ragazzo, suggerendo una morte in combattimento. Se tale ipotesi fosse vera, lo stato dovrebbe coprire le spese per il funerale, un evento di primaria importanza sociale nel Caucaso e per questo un investimento gravoso per la famiglia.
Baku dovrà, infine, rispondere delle accuse sui crimini di guerra compiuti dall’esercito azero durante i 44 giorni del conflitto. In internet girano diversi video che ritraggono soldati armeni catturati torturati e uccisi sommariamente. Al riguardo, il 21 novembre il Procuratore Generale azero ha comunicato che, pur mettendo in forte dubbio la veridicità dei video, se questa fosse confermata i perpetratori delle violenze dovranno rispondere alla giustizia.
Armenia, sconfitta e problemi
All’entusiasmo in Azerbaigian si specchia lo sconforto e la rabbia in Armenia. Nel mirino, inevitabilmente, è finito il primo ministro, Nikol Pashinyan, le cui dimissioni sono state richieste dalle opposizioni e dai partecipanti alle proteste che hanno animato per settimane le strade di Erevan. Agli occhi dei suoi detrattori, firmando l’accordo del 9 novembre, Pashinyan avrebbe consegnato senza combattere a Baku territori che, invece, bisognava difendere. Dalle regioni destinate al passaggio di mano, poi, sono arrivate le immagini delle case bruciate dai loro abitanti pur di non lasciarle in mano azera, cosa che ha gettato ulteriore benzina sul fuoco.
Il premier armeno, per ora, non ha ceduto, nonostante le dimissioni del ministro degli Esteri e dei titolari dei dicasteri della Difesa e dell’Economia e l’invito a farsi da parte del presidente, Armen Sarkissian. Il 18 novembre, Pashinyan ha definito 15 punti di un ampio programma di riforme per riportare stabilità nel paese entro sei mesi e, in un’intervista all’agenzia di stampa TASS, ha dichiarato di non essere disposto a parlare di dimissioni prima del decorso di questo periodo. Una delle prime misure prese dal governo è stato il bando all’importazione di prodotti turchi in reazione al supporto di Ankara all’Azerbaigian.
Desta particolare preoccupazione la situazione sociale in Armenia. La guerra ha falcidiato la giovane generazione di un paese alle prese da anni con una crisi demografica. Le vittime ufficiali dell’esercito armeno, per ora, sono 2435, ma, come in Azerbaigian, tante famiglie sono all’oscuro di quello che è successo ai loro cari dispersi, mentre continua la ricerca dei corpi dei caduti e lo scambio di prigionieri.
Grave è anche la situazione dei tanti civili che hanno abbandonato il Nagorno-Karabakh per sfuggire ai bombardamenti e all’avanzata dell’esercito azero. Su questo fronte, sono arrivate, però, notizie positive: la presenza sul campo dei peacekeeper russi sancita dall’accordo di pace, consente, infatti, il rientro dei profughi nelle aree della regione rimaste sotto il controllo armeno e la vita sta lentamente tornando a Stepanakert, la capitale de facto del Nagorno-Karabakh.
L’arena internazionale
Per quanto riguarda il contesto internazionale, ci sono stati due sviluppi rilevanti legati al conflitto nelle ultime settimane.
In primo luogo, l’1 dicembre la Russia e la Turchia (la presenza di militari turchi nella regione era stato uno dei punti più discussi dopo la firma dell’accordo di pace) hanno completato le discussioni tecniche sul centro di monitoraggio congiunto della tregua in Nagorno-Karabakh: il centro si troverà in Azerbaigian (non è stato ancora chiarito dove) e dovrebbe aprire entro la fine dell’anno.
In secondo luogo, il 23 novembre il senato francese ha votato, quasi all’unanimità, una risoluzione che invita il governo “a riconoscere il Nagorno-Karabakh e usare il riconoscimento come uno strumento nei negoziati per una pace sostenibile”. Nonostante non si trattasse di un atto vincolante – e anzi l’Eliseo abbia sottolineato come, quella del senato, non fosse una posizione condivisa dal governo – la cosa ha scatenato reazioni veementi in Azerbaigian. Mentre centinaia di manifestanti protestavano davanti all’ambasciata francese a Baku, il parlamento azero votava una risoluzione per chiedere al governo di fare pressioni per l’esclusione della Francia dalla co-presidenza del gruppo di Minsk dell’OSCE, l’ente internazionale preposto alla risoluzione del conflitto.
Tanti sono gli ostacoli di una regione alla ricerca di stabilità. Il lavoro da fare è molto e la normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Azerbaigian è ancora lontana.