Questo articolo redatto per la nostra Agenzia, riprende parzialmente il contributo dell’autrice, intervenuta in rappresentanza della Biblioteca delle donne dell’UDI Palermo al dibattito-confronto sulla “questione del lavoro”, che è stato introdotto e coordinato dalla redazione di Palermo di Pressenza (Ketty Giannilivigni) e nel corso del quale sono intervenuti il Caffè filosofico (Daniela Musumeci), NonUnaDiMeno (Claudia Borgia);la partecipazione da remoto è stata assicurata dal supporto tecnico del Laboratorio Andrea Ballarò

Dopo aver scritto il saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934), Simone Weil, vicina al sindacalismo rivoluzionario, aveva deciso di andare a lavorare in fabbrica con l’intento di procedere attraverso il contatto in prima persona con la condizione proletaria, nello studio dei meccanismi oppressivi e nell’indagine delle concrete possibilità di ideazione e realizzazione di un ordine sociale totalmente nuovo da parte della classe operaia. Di fatto ciò non le fu possibile, racconta nel suo Diario di fabbrica , a causa del violento impatto con lo stato di schiavitù determinato dal lavoro parcellare a cottimo, imposto con rigida disciplina dagli industriali all’interno delle piccole e grandi fabbriche dell’epoca, veri e propri penitenziari. La sua esperienza di operaia si svolse in tre officine della periferia parigina in un lasso di tempo breve (dicembre 1934-agosto 1935). Eppure il farsi operaia ebbe profonde ripercussioni sulla sua vita e sul suo modo di concepire, da un lato, la coscienza di sé, l’esistenza el’umano e, dall’altro, il lavoro, le forme di opposizione allo sfruttamento e di resistenza all’oppressione, e più in generale la questione sociale. Ciò che colpisce nel suo Diario di fabbrica non è solo la documentazione minuta dei lavori che le vengono affidati, del conteggio dei pezzi consegnati e del calcolo del salario a cottimo, dei tempi a cui non riesce a stare dietro, o la descrizione degli spazi e angolini più o meno bui, freddi e rumorosi, o la registrazione degli errori commessi e delle difficoltà che incontra nell’eseguire i pezzi in base a ordini quasi sempre incomprensibili, nel tentare di comprendere il funzionamento degli attrezzi e dei macchinari.A colpire è anche e soprattutto il suo coinvolgimento nell’atmosfera dell’ambiente fabbrica, la trasposizione nelle annotazioni quotidiane degli stati d’animo suoi e dei compagni e delle compagne di lavoro, come una certa cupezza, la rabbia soffocata nei confronti della durezza dei capi,la quasi rassegnazione a velocità da schiavi e a una disciplina disumana, l’angoscia per un eventuale licenziamento, la duplice ferita in quanto donne e operaie e,sia pure a sprazzi, la dolcezza di un sorriso, la generosità del cuore dipinta sui volti di chi incoraggia o dà una mano…

A distanza di circa un secolo è possibile leggere in diversi racconti riportati in Doppio carico di di Loriana Lucciarini osservazioni e considerazioni che richiamano l’esperienza di Simone Weil. Livia, operaia da quasi vent’anni alla Fca di Melfi definisce la produttività come « un vortice dentro cui si è travolti e che risucchia energia e vitalità. […] All’inizio della turnazione si è in servizio per sei mattine, dalle6.00 alle 14.00, da lunedì a sabato e si ricomincia domenica sera alle 22.00, per quattro notti consecutive. Seguono due giorni di riposo e tre pomeriggi di lavoro (compresa una domenica), altri due giorni di riposo e tre notti di lavoro, poi due riposi e, infine, altri quattro pomeriggi di lavoro […] . Anche se qualcosa è stato cambiato, seguire il ritmo meccanizzato della catena di montaggio e queste turnazioni è comunque davvero pesante ». Questa produttività introdotta nel 2016, secondo un sistema per la direzione aziendale ‘migliorativo’, costringe operaie e operai a stare in piedi asserviti alle velocità dei carrellini trainati da robot automatizzati e a inseguire la linea, sicché « ci si imbarca , ossia ci si allontana sempre più dai confini della postazione disegnati sul pavimento. Basta un qualunque imprevisto, una vite sfilettata o un semplice starnuto, per rendere spasmodica la risalita. A volte ci paragoniamo ai salmoni… ». Lavoro automatizzato, dunque, operazioni eseguite con gesti ripetitivi obbedienti a una scansione temporale stabilita in funzione dei macchinari e di operaie/i trasformati in salmoni-robot – un lavoro che, prosegue Livia con amarezza, « non concede tregue né tentennamenti e richiede movimenti precisi e una tensione continua, una specie di balletto postmoderno dal ritmo sincopato ». Maquesta giovane donna dimostra di essere lontana dalla rassegnazione al ricatto e all’oppressione delle operaie di un secolo fa; il suo desiderio di libertà e le sue passioni le permettono di non lasciarsi annientare dai ritmi massacranti; si avverte nella sua storia un mutamento nell’essere donna che è una vera rivoluzione: « Non mi avranno. E non avranno la mia anima. Quella la custodisco stretta durante le notti bianche al neon così come nelle albe stanche, lungo la provinciale 48 che lega, in un’unica striscia d’asfalto, i capannoni » (p.24). Certo, c’è di che restare esterrefatti dinanzi all’organizzazione delle fabbriche 4.0. Queste testimonianze, sia pure parziali, dovrebbero forse entusiasmarci di fronte alla quarta rivoluzione industriale e all’aggiornamento della ‘razionalizzazione’ di Taylor? La fabbrica 4.0 ha come obiettivi la razionalizzazione dei costi e l’ ottimizzazione delle prestazioni e per realizzarli è necessaria la flessibilità non solo della stessa fabbrica ma anche dell’ uomo-tecnico (appendice dei robot, detto in soldoni) che dovrà essere dotato di un mix di competenze digitali atte a governare il cambiamento imposto dalle nuove tecnologie ( intelligenza artificiale , big data , biotecnologie , mobile , internet delle cose …); insomma, siamo nella logica del progressismo ineluttabile! In altre parole, benvenute/i nella fase del capitalismo della sorveglianza e dello sfruttamento e dell’ oppressione che ci rende dipendenti di un algoritmo e schiavi del clic .

Il Sottosopra del 2009, Immagina che il lavoro , che ha come sottotitolo:« un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da donne e rivolto a tutte e a tutti perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più » – frutto di una pratica politica che tiene insieme esperienze e saperi – ha il pregio di farci compiere un passo ulteriore nel superamento delle categorie consuete con le quali si è soliti criticare l’economia capitalistica e, nella sostanza, l’economia senza ulteriori specificazioni. Il manifesto mette in gioco desideri, bisogni, interessi dei soggetti che lavorano a partire da « un’altra strada », che coincide con quella « intravista dalle donne » presenti nel mercato del lavoro e che tende a un « cambiamento di civiltà », efficacemente sintetizzata nella sentenza « primum vivere ». Primum vivere significa mettere al centro la vita , ma non si tratta di subordinare l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, né, in altri termini, la prassi alla teoria o viceversa, bensì di attribuire valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta riconoscendo in primo luogo che l’umanità è composta di donne e uomini, che nasciamo tutti vulnerabili e dipendenti e non inattaccabili e onnipotenti, che le nostre fragili esistenze necessitano di relazioni e cure quotidiane, che i diversi ambienti in cui siamo radicati e i diversi habitat che ci ospitano non sono serbatoi di energia da cui attingere esclusivamente per il nostro uso e consumo, con l’egocentrismo tipico di chi non ha ancora raggiunto la consapevolezza che ogni piccolo essere, ogni piccolo insieme animato e inanimato si regge sull’interdipendenza e non da solo ma all’interno di una rete micro e macrocosmica di interconnessioni. Da questa angolazione risulta evidente che oltre al lavoro salariato esiste il lavoro quotidiano imposto dal vivere e necessario per vivere, sul quale le donne hanno accumulato saperi esperienziali che, assunti responsabilmente dalle donne stesse insieme a nuove libertà , possono costituire una sicura leva per cambiare l’economia a favore di tutti. La questione posta dal Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano si concentra dunque non su un mix di competenze più o meno digitali ma sul mix vita/lavoro, che comporta per le donne un intreccio tra libertà e costrizione che non si risolve né con «l’ ’equa’ spartizione tra i due sessi del lavoro in casa e di relazione » né con la « conciliazione tra i due lavori per entrambi i sessi ». Si tratta invece di non coprire « il conflitto che c’è nel lavoro, in quello produttivo come in quello di riproduzione dell’esistenza. Con la differenza che quest’ultimo si ribella alla legge e alla monetarizzazione. Esso infatti ha una posta in gioco più ambiziosa: tenere in vita la relazione amorosa nel conflitto e fare esperienza della libertà e del limite ». Bisogna ripartire per l’appunto da questa posta in gioco assumendosi responsabilmente le contraddizioni insite nel doppio carico e nel doppio sì , in vista di un assetto relazionale e socioeconomico totalmente nuovo, da costruire giorno dopo giorno donne e uomini insieme, mediante la fatica necessaria a trasformare i rapporti tra i due sessi e quindi il mondo; mediante la gioia di contribuire a scompaginare il vecchio ordine sociale e simbolico fondato sulla reificazione della parte femminile dell’umanità, che è all’origine di ogni altra forma di reificazione e alienazione dell’umano e del vivente;mediante la serena consapevolezza di partecipare a un cambiamento lento ma inarrestabile, che tende a una civiltà nella quale si mettano al centro i bisogni umani autentici e non quelli indotti in modo ignobile, ciò che è vitale e non ciò che è mortifero, in definitiva non il profitto ma tutto il lavoro indispensabile alla vita .

https://www.youtube.com/watch?v=dZL6RzGBRnU
La versione integrale col titolo “E NON AVRANNO LA MIA ANIMA! Narrazioni e riflessioni di donne sul lavoro” è consultabile su NoteBlock