Sono rilevanti le parole con le quali, non più tardi di un paio di giorni fa, Vjosa Osmani, una delle figure più in vista dell’attuale scena politica kosovara, ricordava una figura di primo piano della storia politica e intellettuale del Kosovo, quale Anton Çetta. «Venticinque anni fa, lo studioso, etnologo, collezionista del patrimonio etno-culturale e patriota, Anton Çetta, se n’è andato. Ha fatto l’impossibile, in un momento impossibile, quando ha radunato intorno a sé tutti gli albanesi per riconciliarli, per chiudere le loro ferite secolari. La sua idea di riconciliazione non è finita.
Il sogno continua, mentre cresce il bisogno di riconciliazione e unificazione in questi tempi difficili per il Kosovo. Ha lasciato in eredità il perdono per 1200 faide del sangue. Non siamo ancora riusciti a far collocare, in un luogo degno, una sua statua, che possiamo onorare e attraverso la quale possiamo ringraziarlo per il fatto che, negli anni Novanta, ci ha ridato la speranza, ci ha mobilitato, e ci ha stretti intorno alla causa nazionale.
Oggi, a due decenni ormai di distanza, una sua statua onorerebbe non solo la capitale, ma tutto il Kosovo. In qualità di Presidente dell’Assemblea Parlamentare proporrò alla Presidenza che la statua di Anton Çetta sia collocata nel cortile dell’Assemblea stessa, cioè nella casa dei rappresentanti del popolo, come emblema di ispirazione e di riconciliazione». Ha ragione, Vjosa Osmani: ha ragione quando non dimentica i problemi del Kosovo di oggi, che, oggi più che mai, attraversa tempi difficili, per le nuove emergenze legate alla diffusione della pandemia di coronavirus, che tanto significativamente sta minacciando i popoli del mondo, e dei Balcani Occidentali non diversamente dagli altri; e ha ancora più ragione quando si sofferma sui problemi che il Kosovo si porta sulle spalle ormai da decenni, che la guerra recente, l’aggressione statunitense e occidentale della fine degli anni Novanta, e un dopo-guerra lunghissimo, che con tanta fatica si sta cercando di superare, non hanno fatto altro che ulteriormente peggiorare e radicalizzare.
È vero, ma è possibile leggere queste stesse parole in molti modi: il Kosovo ha più che mai bisogno di unità e riconciliazione, ma non l’unità di un miope “compattamento nazionale”, né certamente una riconciliazione “di facciata”, che eviti di indagare le motivazioni profonde e complesse di tutto ciò che è successo nella lunga transizione degli anni Ottanta e Novanta, o che, peggio ancora, si soffermi esclusivamente sui torti degli altri e le proprie ragioni, anziché mettere in discussione e attraversare criticamente il complesso e la dinamica degli eventi che sono occorsi, prima durante e dopo la lunga stagione di conflitto, appunto, a cavallo degli anni Novanta. Quello che occorre, di cui davvero ci sarà necessità, è una unità autentica del popolo e delle comunità del Kosovo, un processo di reciproca comprensione «per un Kosovo di tutti/e e per tutti/e», effettivamente multi-etnico, dove tanto gli albanesi kosovari quanto i serbi del Kosovo e tutte le altre comunità possano avere vera, effettiva, piena cittadinanza, eguaglianza di diritti e di opportunità; e una riconciliazione autentica, che si basi sulla verità e la giustizia, come è stato detto recentemente, «la giustizia e la pace», riconoscendo e rispettando il dolore di tutte le vittime, rispettando e tutelando il patrimonio culturale e i «luoghi della memoria» di tutte le comunità, aprendo la strada a una nuova prospettiva di benessere e di inclusione. Vjosa Osmani è, in questo momento, la “presidente” del Kosovo facente funzioni: è appena di qualche ora fa la notizia delle dimissioni di Hashim Thaçi, a seguito della conferma delle accuse a suo carico, da parte della Corte Speciale dell’Aja, per crimini di guerra.
Nella sua dichiarazione alla stampa, oltre alla rivendicazione del suo ruolo all’interno dell’UÇK e delle sue responsabilità istituzionali nella direzione politica del “Newborn State”, ha sottolineato di essere «a disposizione della giustizia, di credere nella giustizia, di credere nella verità, nella riconciliazione e nel futuro del nostro stato e della nostro società. Ecco perché oggi più che mai vi esorto a non perdere la speranza, la pazienza e la fede; oggi più che mai vi invito a riflettere su quanto abbiamo conquistato come nazione in questi tre decenni».
È presto per dire se l’iter giudiziario complessivo della Corte Speciale arriverà a stabilire una verità processuale, giudiziaria, sulla complessa vicenda kosovara. Le dimissioni di Hashim Thaçi seguono l’arresto di Jakup Krasniqi, ex portavoce della stessa UÇK, anch’egli accusato dei crimini più gravi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Corte Speciale dell’Aja (KSC: Kosovo Specialist Chambers) sta indagando sulle accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, risalenti alla fine degli anni Novanta, a carico di figure di primo piano dell’UÇK, il cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) vale a dire la formazione armata dei separatisti albanesi-kosovari, per lungo tempo considerata organizzazione terroristica (come indica anche la Risoluzione 1160, del 31 Marzo 1998, del Consiglio di Sicurezza). Il pubblico ministero ha accusato il leader kosovaro e i principali leader UÇK di essere penalmente responsabili di quasi 100 omicidi, torture e sparizioni forzate. In base a una dichiarazione, riportata dalla BBC, rilasciata da Jelena Sesar, ricercatrice sui Balcani di Amnesty International, «la conferma del processo dà speranza a migliaia di vittime della guerra del Kosovo che da più di due decenni attendono la verità sui crimini orribili commessi contro di loro e i loro cari».