Abbiamo intervistato Giancarlo Tosi, apicoltore nella zona di San Colombano al Lambro (Milano) con la Cooperativa I Germogli.
Caro Giancarlo, da quanti anni ti occupi di api?
Ho iniziato nel 2001 insieme a mio suocero che gestiva una ventina di alveari in modo amatoriale; io ho cominciato a seguirlo, a interessarmi e nel 2004 abbiamo aperto la Cooperativa Germogli, che produce vino e miele. Ho imparato con lui, in questo campo si impara studiando e stando vicini a chi lo conosce già. E’ importante anche la passione. Nell’apicoltura vedi molta gente che ha dai 50-60 anni in su; ultimamente si affacciano un po’ di giovani. In Italia la maggior parte è composta da medi e piccoli produttori, pochissimi hanno dei dipendenti e sono soprattutto al nord. E’ un’attività che richiede manodopera capace. Il grosso del lavoro è la gestione degli alveari nel campo, nel pieno della stagione che va da fine marzo a fine settembre. Le api producono miele quando ci sono fioriture importanti, quindi in primavera ed estate. Certo, in Sicilia, fa più caldo e dunque producono qualcosa in più… Sulle Alpi la stagione è più breve.
Si può contraffare il miele? Come avviene per l’olio per esempio…
In Italia ci sono un sacco di controlli e la contraffazione è punita come reato penale, quindi direi che qui non succede, ma stanno arrivando dall’estero mieli contraffatti. Il miele europeo si può mescolare con quello italiano, dichiarandolo e scrivendolo sull’etichetta; di fatto avvengono delle triangolazioni con paesi come la Cina: il miele arriva per esempio da Romania o Bulgaria (dove i controlli sono inferiori), ma in realtà è prodotto ben più lontano e non si sa come. Qui da noi allungare il miele con sostanze zuccherine è possibile, ma davvero improbabile. Il livello di serietà degli apicoltori italiani è alto. In questo senso il prezzo del miele non può essere “troppo basso”; se succede, bisogna farsi due domande. Anche perché, per esempio, le ultime 4-5 annate hanno avuto una produzione medio-scarsa, quindi non ci sono “eccedenze” da svendere…
Come si è evoluto il tuo lavoro?
Ho imparato tanto sul campo, a volte sbagliando. Ho seguito l’esperienza di mio suocero che ora ha 84 anni e segue le api da quando ne aveva 16! Lui, per quanto lo facesse come hobby, andava a “tampinare” molti apicoltori professionisti e ha captato tanti segreti. Io poi sono entrato nell’associazione API Lombardia, la più grande della regione e negli anni scorsi sono stato anche nel consiglio direttivo, quindi ho seguito da vicino le dinamiche a livello regionale. L’Associazione ci permette di crescere insieme, condividere i problemi, rapportarci con le istituzioni.
Che cosa hai visto cambiare in questi 15 anni?
Quando ho iniziato parlavo con molta gente. Erano tutti piuttosto contenti e soddisfatti della produzione e di come le api reagivano alla situazione ambientale. Negli ultimi 10 anni abbiamo visto un calo del numero delle api durante i mesi della produzione, ma non capivamo cosa stesse succedendo. Non capivamo perché, non trovavamo le api morte dentro o vicino agli alveari, ma questi rimanevano spopolati. Abbiamo fatto indagini come associazioni e abbiamo scoperto che si perdevano, non trovavano più la strada per tornare nella loro arnia. Per un’ape questo significa morire appena scende la notte; non può vivere da sola. Noi parliamo di ape regina, ma dovremmo parlare di un maxi-organismo che vive in “famiglie numerose”.
La causa di tutto questo? I neonicotinoidi usati per il grano, il mais, la colza, la soia… tutte coltivazioni intensive. Prodotti venduti dalla grandi multinazionali come Bayer, Monsanto, etc. In Francia li hanno proibiti, anche se da parte delle ditte c’è un’astuzia nel cambiare qualche componente o il nome, sviare così i divieti e commercializzarli ugualmente. Per le api è come avere l’Alzheimer; quando passano nei pressi delle coltivazioni dove hanno usato questi pesticidi, non si orientano più, i loro connettori, circuiti, percorsi saltano e così si perdono. E’ una cosa tristissima.
Poi è arrivato il cambiamento climatico: in questi ultimi 10 anni abbiamo visto stagioni poco piovose o con rovesci di pioggia eccezionali in poco tempo, come è successo qualche settimana fa in Piemonte, quando in 24 ore o poco più sono scesi 500 millimetri d’acqua, quella che di solito cade in 5 mesi! Queste piogge non sono più distribuite “normalmente” in un ampio arco di tempo, le temperature sbalzano, le fioriture ne risentono e di conseguenza anche gli alveari. Le fioriture durano meno, magari 7-8 giorni invece di 15-20. Le api così hanno tempi stretti per produrre il miele. Tutto questo ha reso difficile il lavoro degli apicoltori in questi ultimi anni. La situazione in tutta Italia è simile. In alcuni anni il Nord produce un po’ di più, il Sud un po’ meno e viceversa, ma la curva nazionale in generale è in discesa ovunque.
Una volta gli apicoltori potevano permettersi di avere degli apiari stanziali, ovvero di non muoverli tutto l’anno. Ora questo non è più possibile, perché è difficilissimo non avere delle coltivazioni intensive nelle vicinanze. Per esempio, chi produce in montagna (800-1500 metri) in questi ultimi anni se l’è cavata bene, perché là ci sono meno coltivazioni intensive, ma in montagna ci sono anche rischi di piogge e di maltempo…
Altro fatto grave: le api regine non vivono più cinque anni, ma in media due o tre anni per via dello stress e dell’indebolimento dovuti a quello che dicevamo prima.
C’è dialogo tra apicoltori e agricoltori?
Ce n’è poco. Solo alcuni agricoltori “illuminati” si preoccupano di quello che diciamo. Molti fanno spallucce, altri addirittura negano. Considera che noi siamo considerati “marginali”, anche se così non dovrebbe essere. Nelle confederazioni che si occupano di agricoltura (per esempio la Coldiretti) contiamo poco. Rappresentiamo circa l’1% del reddito prodotto in agricoltura, quindi non siamo molto ascoltati. E’ un atteggiamento sbagliato, perché siamo un importante termometro del benessere e della salute. Non muoiono solo le api, stanno sparendo fette intere di insetti, parte della natura. Già qualche anno fa c’erano ricerche che parlavano di una perdita del 70% del patrimonio di insetti, se non ricordo male, a livello mondiale.
Come vi state muovendo per invertire la rotta?
L’abbiamo detto in tutte le salse: se saltano le api salta tutto. Non si può essere così miopi e difendere degli interessi a breve termine, quando sul lungo termine non sappiamo dove andremo a finire, o meglio, lo sappiamo e facciamo finta di nulla. Lo stesso vale per le istituzioni. Regione, Ministero non ci ascoltano. Quando abbiamo avuto incontri non c’è stato alcun seguito. Dovremmo acquistare maggior forza e determinazione. Gli apicoltori in gran parte sono piccoli e medi produttori, abbiamo e dedichiamo troppo poco tempo alla diffusione di una cultura differente. Siamo troppo impegnati a sopravvivere. Sarebbe di aiuto unire le forze con i giovani che si battono per il pianeta. Bisognerebbe mettere insieme gruppi forti come Greenpeace, WWF, Legambiente, Italia Nostra, altri. Non ci siamo mai riusciti e non so perché. Dovremmo farci vedere e sentire di più. E molto.
Dunque è vera la frase: “Se finiscono le api per noi esseri umani è finita”?
E’ verissima. L’impollinazione fatta dall’ape su quella che è la nostra frutta o verdura è importantissima. Le api impollinano l’80% della frutta che noi mangiamo.
Tra noi apicoltori c’è tantissima rabbia nei confronti di questi pesticidi (che le aziende chiamano fitofarmaci…), delle ditte che li producono, di chi li usa e di chi permette che si usino. Le grandi multinazionali mistificano i dati e dicono che i loro prodotti non arrecano danni alle api, ma non è così. Ci sono piccoli agricoltori che ci sostengono, sono attenti, ma in Italia la produzione agricola è ormai in mano a pochi e questi non ci degnano di uno sguardo. I piccoli produttori “sani” soffrono quanto noi.
In Italia l’apicoltura, come altre forme di allevamento, dà lavoro a parecchi immigrati?
Direi di sì, perché alcuni di loro arrivano da paesi con una discreta tradizione in questo campo. Inoltre, diciamolo, hanno un’idea di “sacrificio” diversa dalla nostra: a volte bisogna muoversi a mezzanotte per spostare le api, o fare levatacce alle 4 di mattina, o lavorare il sabato o la domenica, come spesso avviene quando si ha a che fare con la natura. Ultimamente ho fatto un corso di formazione con dei giovani immigrati nei pressi di Viterbo. Era estate, faceva caldo, ci siamo messi le tute e così ho visto questi ragazzi africani in maglietta e pantaloncini. Molti di loro avevano il corpo segnato: non erano graffi, ma segni di violenza e di tortura. Ma questo è un altro discorso…