Si sta svolgendo in questi giorni a Bologna la quattordicesima edizione del “Terra di tutti film festival”. Iniziata il 6 ottobre, proseguirà fino all’11 ottobre; oggi il terzo appuntamento si è aperto con il seminario “Media e migrazioni: analizzare i linguaggi e trovare nuove narrazioni”.
Il dibattito ha visto la partecipazione di personalità direttamente attive nell’ambito della comunicazione e delle migrazioni e gli argomenti emersi sono stati spunto di riflessione e di propositività.
Il primo panel era incentrato sulle parole utilizzate dai media, soprattutto l’informazione pubblica, per parlare dei migranti, del loro lavoro e della percezione dei migranti da parte degli italiani. Dal sondaggio effettuato dall’istituto Ipsos ed esposto da Chiara Ferrari, emerge che circa il 60% degli intervistati è convinto che esista una coincidenza tra diffusione del virus e concentrazione di stranieri nel nostro paese.
Gli interventi di Manuela Malchiodi dell’Osservatorio di Pavia, Marina Lalovic, giornalista di Rai Radio 3 e Yvan Sagnet di rete NO Cap – associazione che si occupa di fronteggiare il caporalato – hanno messo in luce quanto i giornali e la tv costruiscano un’idea attraverso le parole, talvolta improprie, degli stranieri e degli immigrati nel nostro paese. Anche la parola stessa migrante ha un’accezione di movimento e precarietà, come ha fatto notare la giornalista di Associazione Carta di Roma Sabika Shah Povia, mentre sarebbe più corretto utilizzare immigrato per chi è stanziato nel nostro paese e vuole restarci. È importante quindi come si pongono certi temi e come li propone l’agenda mediatica.
La proposta di un nuovo modo di informare e raccontare è stata il fulcro del secondo panel, ovvero la diversità al centro di una nuova narrazione. Ci sono dei filtri, dei pregiudizi inconsapevoli contro cui dobbiamo lottare; tutti tendiamo a scegliere persone simili a noi. E’ un retaggio antico che dobbiamo estirpare.
Purtroppo si parla spesso di migranti, ma senza di loro: quando si affronta l’argomento i migranti non sono protagonisti. Stiamo cercando di recuperare la distanza che intercorre tra noi e paesi come l’Olanda o la Gran Bretagna; come ha segnalato Frans Jennekens della televisione pubblica olandese, c’è ancora molto da fare per realizzare una vera integrazione. Nei paesi nordici il tema della diversità abbraccia la diversità culturale, le politiche sugli anziani e quelle sulle pari opportunità di genere, l’orientamento sessuale insieme con la comunità musulmana e quella nera.
Tutti siamo in un modo o nell’altro diversi e ognuno ha una storia diversa da raccontare con la sua voce. Testimone di questa nuova narrazione è stato Larry Moore Macaulay di Refugee Radio Network, che dà voce ai protagonisti di questa nuova diaspora di rifugiati e migranti.
Le cose stanno cambiando fortunatamente anche in Italia: c’è un’attenzione maggiore e il servizio pubblico cerca di essere al passo con i tempi, sta cambiando e continuerà a cambiare in quella direzione, come ha promesso Giovanni Parapini, direttore di Rai per il sociale, dipartimento nato da poco. Ci sono molti progetti che mirano all’inclusione e a dare voce ai protagonisti della diversità su due temi fondamentali: la narrazione delle periferie e una lotta feroce alle diseguaglianze. Il suo obiettivo è proprio quello di “rendere il servizio pubblico più vicino alla gente, più presente nelle comunità e meno legato alle élite di salotti e convegni. Noi consideriamo la diversità una ricchezza potente e non un problema incombente. Per questo va trovato un nuovo modello per fare e raccontare” ha spiegato Parapini.
L’ultimo intervento di Francesca Vecchioni, presidente dei Diversity Media Awards – riconoscimento che mira a combattere le discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere – si è incentrato proprio sull’importanza di parlare a tutti perché tutti devono sentirsi rappresentati. “Quando qualcuno si riconosce nei temi affrontati, che siano nel mondo dell’informazione o dell’intrattenimento, può fare la differenza”. È questo il compito di questa rivoluzione mediatica: creare una nuova società attraverso un nuovo modo di porre delle categorie, perché è in questo modo che si evitano i bullismi e le violenze future di futuri criminali. “Si arriva alle persone attraverso le parole; per questo bisogna utilizzare le parole giuste. Tante volte sbagliamo perché è difficile non farlo e perché la lingua è in continuo mutamento, ma dobbiamo soffermarci sul modo in cui parliamo alle persone e come le rappresentiamo”.
La riflessione sulle parole giuste porta al termine contro-narrazione, che a volte viene usato per designare un nuovo modo di comunicare. In realtà non c’è una contrapposizione, ma un’autenticità che dovrebbe appartenere a tutte le reti e testate per rendere questi contenuti normali.
Il dibattito come tutto il festival è stato ricco di esplorazioni e riflessioni che tutti dovremmo ascoltare, perché davvero, come ha detto Francesca Vecchioni, “se prendiamo tutte quelle che sono le diversità considerate minoranze vediamo che minoranze non sono, ma la maggioranza delle persone.”
Cercare di cambiare la rotta dell’informazione e della narrazione, non solo di quella pubblica, dovrebbe essere un impegno di tutti noi. Se vogliamo una vera inclusione dobbiamo dare voci a diverse realtà con background culturali diversi. L’inclusione sta nell’equilibrio di diversi tipi di narrazioni, lingue e culture.