In Kenya vige un severo divieto di uso di sacchetti di plastica, ma proprio questo stato ora potrebbe essere costretto a importare rifiuti occidentali.
Per anni i paesi industrializzati hanno esportato i propri rifiuti di plastica in Cina. Tuttavia, nel 2018 la nazione asiatica si è opposta all’idea di rimanerne discarica, bloccando le ultime importazioni. Da allora le multinazionali del petrolio come Exxon Mobil, Chevron, Shell, e quelle dei prodotti chimici come ad esempio la Dow Chemical, cercano di “smaltire” i propri scarti plastici, parzialmente dannosi, in altre regioni del mondo. Al momento fanno grande pressione sul ministero dell’economia statunitense affinché venga stipulato un nuovo accordo commerciale che consenta loro di esportare altrove i propri rifiuti e che vieti al Kenya di limitare il consumo di plastica nel paese.
Visto che la crisi climatica le sta complicando la vita, la filiera petrolifera punta con forza sulla produzione di materie plastiche, nel cui processo produttivo, come risaputo, viene impiegato l’oro nero. Tuttavia, il mercato è saturo e nessuno vuole i rifiuti. Secondo una ricerca del New York Times il Kenya è finito nel mirino dell’industria del petrolio. Ecco quanto ha affermato il 28 aprile a riguardo Ed Brzytwa, lobbista responsabile per il commercio internazionale presso il “Chemistry Council” americano, in una lettera indirizzata all’ufficio del rappresentante commerciale statunitense:
“Il Kenya in futuro, grazie a questo accordo commerciale, potrebbe giocare un ruolo chiave nel settore dei prodotti chimici e dei materiali plastici, esportati dagli USA anche in altri mercati africani.”
Le divisioni petrochimiche di Exxon Mobil, di Chevron e di Shell, così come grandi multinazionali chimiche come Dow, godono di una rappresentanza in questo consiglio.
Durante l’ultimo round di negoziati tra i due paesi il presidente kenyano, Uhuru Kenyatta, ha mostrato chiaramente di essere interessato all’accordo. Questa non è una sorpresa, visto che il trattato attualmente in vigore tra USA e Kenya, grazie al quale quest’ultimo può esportare la maggior parte dei suoi prodotti negli USA senza pagare dazi, scadrà nel 2025. Tuttavia, nel 2017 lo stato africano ha approvato una legge contro i sacchetti di plastica e nel 2019 ha sottoscritto un accordo internazionale che vieta l’importazione di rifiuti plastici, accordo a cui le multinazionali del petrolio e la filiera dei prodotti chimici si sono opposte veemente. Il New York Times ha ottenuto l’accesso a delle email che mostrano come i rappresentanti delle industrie, tra cui figurano anche importanti ex delegati commerciali, stiano cooperando con i negoziatori statunitensi per bloccare il trattato.
Il grande interesse delle aziende petrolifere verso i materiali plastici nasce dalle difficoltà causate dalla crisi climatica. Anche la pandemia del Coronavirus ha fatto crollare i profitti. Per questo il settore è alla ricerca di modi nuovi di smaltire l’offerta eccessiva di petrolio e gas. Negli ultimi 10 anni l’industria ha investito più di 200 miliardi di dollari americani nella produzione di prodotti plastici. Tuttavia, le regolamentazioni imposte da diversi paesi contro i sacchetti e i contenitori di plastica monouso potrebbero intaccare il loro fatturato.
Nel 2019 le imprese statunitensi hanno esportato più di 450.000 tonnellate di rifiuti plastici in 96 paesi, secondo le statistiche commerciali per il riciclaggio. Tuttavia, sono soprattutto le parti più difficili da riciclare a finire nei fiumi e nei mari. Dopo che la Cina ha chiuso i suoi porti all’importazione di rifiuti del genere due anni fa, le multinazionali si sono messe alla ricerca di nuove “discariche”. L’Africa gode di grande popolarità: le esportazioni di rifiuti plastici nei paesi africani nel 2019 si sono più che quadruplicate rispetto all’anno precedente, secondo il New York Times.
Il progetto Kenya “è un campanello d’allarme”, secondo Sharon Treat, avvocatessa presso l’istituto per l’agricoltura e la politica commerciale e da diversi anni consulente sia dell’amministrazione Obama che di quella di Trump. Spesso i rappresentanti delle multinazionali “propongono soluzioni estremamente specifiche che il governo poi mette in pratica.”
Per l’industria petrochimica la posta in gioco è decisamente alta. Sono circa 350 le nuove fabbriche in costruzione sugli Appalachi, in Texas e in altri luoghi negli USA. L’industria del petrolio punterà sui profitti da materiali plastici.
Spesso i lobbisti riescono ad imporsi, altre volte no
Durante i negoziati degli USA con Messico e Canada nel 2018 i produttori statunitensi di pesticidi e agenti chimici riuscirono a far accettare delle condizioni che impedissero a questi paesi di regolamentare senza problemi la propria filiera. Allo stesso tempo i negoziatori, con il supporto delle multinazionali alimentari statunitensi, cercarono di vietare a Canada e Messico di mettere in guardia i propri cittadini sulla pericolosità del cibo spazzatura e di identificare gli alimenti con relative etichette. La risposta furibonda dell’opinione pubblica li fece rinunciare perlomeno a quest’ultima condizione.
Christa Dettwiler per il giornale online svizzero INFOsperber
Traduzione dal tedesco di Emanuele Tranchetti. Revisione: Thomas Schmid