Contro la pretesa avanzata dal Presidente della Regione Stefano Bonaccini insorgono CLAP e ADL COBAS Emilia-Romagna. In una nota congiunta, a firma di Stefano Re (Associazione Diritti Lavoratori) e Tiziano Trobia (Camere del Lavoro Autonomo e Precario) col titolo “NIENTE DA RESTITUIRE” , si contesta l’entrata a gamba tesa di Bonaccini sui percettori del Reddito di Cittadinanza. Il Presidente demo-miracolato, salvato dalla “dea delle Sardine”, chiede di mettere all’incasso quella sorta di “Pagherò” – così nei fatti considerato il RdC da tutte le forze parlamentari, ivi compresa chi fortemente lo ha sostenuto dal governo – emesso dallo Stato in favore di quella ristretta platea di beneficiari (date le condizionalità previste nei requisiti che pesano come macigni sulla posizione dei richiedenti), i quali sono riusciti ad elevare appena le proprie condizioni di vita dallo stato di necessità assoluta dei bisogni primari.
In sostanza, si invoca un atto d’imperio affinché i percettori della misura sociale, “obbligati” verso lo Stato-creditore, si sdebitino con la messa a lavoro coatto nei campi dell’agricoltura o in altri settori strategici o là dove se ne richiederà l’impiego: la controprestazione, in capo al debitore-percettore del RdC per il mantenimento del sostegno, non deve essere vincolata alla progressività obbligatoria dell’accettazione delle offerte di lavoro. La prestazione deve, invece, essere pretesa come una sorta di esecuzione coattiva, al pari al diritto del creditore vantato nei confronti del suo debitore, come se il rapporto pubblico Stato\Cittadino declinasse nel rapporto privatistico tra “liberi contraenti”, se non addirittura affievolito in un rapporto di sudditanza verso il Sovrano creditore.
“Parlare di restituzione in riferimento ai percettori di RdC – come rilevano gli autori della nota congiunta – è come dire che chi si trova (o si trovava già) in difficoltà economica e per questo esercita il diritto a un seppure limitato ed economicamente modesto sostegno, debba essere considerato in debito e dunque, si sa, prima o poi i debiti vanno restituiti alle condizioni del creditore. Chi non ce la fa da sola/o va pure aiutato a sopravvivere, ma rimane colpevole del proprio fallimento sociale (cioè essere povera/o), dal quale è necessario riscattarsi nei confronti della collettività”.
Non si pensi che quella di Bonaccini sia una voce nel deserto. Altri illustri politici ed economisti dell’area della maggioranza sostanzialmente convergono, allargando anche la sfera della coattività produttiva e aggiungendo proposte più articolate. Peraltro, ad onor del vero, la furbata dello “sdebitamento” era stata un’ipotesi avanzata in precedenza, sia dall’interno del centrodestra sia da quello del centrosinistra, chiamando a raccolta tutto il fronte di coloro che avevano osteggiato – sul nascere e anche dopo – l’introduzione del reddito di cittadinanza, misura volta a favorire – dicevano con disprezzo – i “fannulloni del divano”.
Certo qualche folgorazione sulla via di Damasco, per dovere di cronaca, nelle ultime ore si è registrata, anche se è ancora presto per capire di che genere di “svolta” si tratta, tenuto conto delle forti avversioni nel corpo del partito: stiamo parlando delle dichiarazioni, a cui giustamente dà spazio “il Manifesto” di oggi, del segretario del PD Nicola Zingaretti, che si è accorto finalmente della necessità di un reddito universale. Ma qualche piccola breccia si è aperta anche sul fronte sindacale confederale in casa CGIL: in un recente documento politico della maggior organizzazione dei lavoratori si fa cenno timidamente ad un reddito di emergenza e, in modo più convinto, alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Gli interventi di impostazione risarcitoria non si limitano soltanto ai soggetti beneficiari del reddito di cittadinanza, fra le tante v’è pure quella di estendere l’obbligo di lavoro agli operai in cassa integrazione; magari a qualcun altro potrà balenare l’idea di erogare l’eventuale misura transitoria di sostegno al mantenimento, tipo “reddito d’emergenza”, subordinando alla condizionalità di impiego in settori strategici dell’economia e non solo in quello agroalimentare.
In coda alla scia di quanto escogitato -per esempio- dalla ministra Bellanova (in merito alla necessità di reperire braccia per l’agricoltura, non fermandosi ai soli beneficiari del Reddito di Cittadinanza, bensì allargandone la platea) si è attaccato l’appello lanciato da alcune associazioni padronali dell’agroalimentare, le quali pare siano inondate di richieste di disponibilità al lavoro da parte di cassintegrati, studenti e stagionali del comparto turistico, tutti soggetti ai quali – come scrivono ADL e CLAP – “il lockdown ha già ridotto o annullato la capacità di reddito e l’incipiente crisi economica non promette alcuna garanzia di sopravvivenza dignitosa”.
Sarebbe opportuno che oltre alla registrazione delle disponibilità di impiego, avanzata da questa platea di bisognosi, l’associazionismo padronale facesse seguire dei chiarimenti fondamentali in ordine alle modalità di assunzione, spiegandoci perché l’utilizzazione dei voucher con “procedura esemplificata” sarebbe preferibile alla contrattazione a termine, giacché quest’ultima mal si concilierebbe con la posizione giuridica del cassintegrato. Quindi torna d’attualità l’utilizzo dei famosi voucher, ben noti anche come strumenti di dumping salariale, a cui la sindacalista d’un tempo pensa di reintrodurre per de-contrattualizzare il lavoro agricolo, salvando così il sistema imprenditoriale sotto shock pandemico. La ministra Bellanova, sensibile alle richiesta padronali, ha trovato la maniera di venire incontro al settore dell’agroalimentare e le sue dichiarazioni in Parlamento non si prestano ad alcun equivoco: è fondamentale introdurre “la cumulabilità tra le forme di sostegno e reddito da lavoro per chi verrà impiegato nel settore agricolo”. Ma si chiedono Re e Trobia: “Cosa significa questo, se non permettere il mantenimento di bassissimi standard salariali (per tutti), permettendo ai datori di lavoro di pagare pochissimo i lavoratori, con la scusa di una copertura da parte dello Stato? È corretto dunque per la ministra Bellanova che un operaio agricolo riceva 300 o 400 euro al mese per il proprio lavoro, vista la cumulabilità con il RdC?
Come è noto a causa della pandemia la mobilità dei lavoratori è bloccata. Negli anni passati circa duecentomila stagionali dell’est – per lo più rumeni –costituivano la base della forza-lavoro nel settore agricolo, cosicché l’intero sistema di reclutamento è stato messo fuori gioco dalla pandemia per mancanza di “materia prima”. Quindi ora ci si ricorda ipocritamente dell’esistenza degli “invisibili”, cioè gli immigrati clandestini improvvisamente riconosciuti come una risorsa provvidenziale a cui ricorrere, dimentichi che sino all’altro ieri vivevano nelle campagne italiche, anche nei distretti agricoli del profondo Nord, in condizione di semischiavitù. Come scrivono gli autori della nota congiunta CLAP\ADL COBAS : “Vi è una quotidianità di sfruttamento e profonda precarietà economica e sociale, fatta di salari da fame, assenza di diritti, evasione contributiva, contrattualizzazione assente (lavoro nero) o minima (lavoro grigio), di poche ore per giornate lavorative fino a 10/12 ore effettive”.
Ma come mai ci si accorge della loro presenza proprio quando la mancanza di braccia a basso costo – a causa dell’emergenza sanitaria globale – sembra poter mettere a rischio le possibilità di profitto del settore agro-alimentare? La verità è che, ricordano Stefano Re e Tiziano Trobia, si tratta di un settore “che ogni anno macina oltre 140 miliardi di euro a esclusivo favore dei grandi soggetti imprenditoriali, attraverso un meccanismo di filiera lunga che comprime ferocemente i costi, facendo pagare il prezzo più alto agli anelli deboli della catena: piccoli produttori e soprattutto centinaia di migliaia di braccianti”.
Ecco perché allora si pensa alla regolarizzazione dei migranti, attingendo a un bacino a buon mercato per la sostituzione dell’ esercito di manodopera mancante per salvare i raccolti della stagione agricola. Pertanto la ricerca di braccia da reperire a basso costo si arricchisce di giorno in giorno: oltre ai percettori di reddito di cittadinanza “obbligati” nei confronti dello Stato vi sono quelli individuati dal ministro pro tempore delle politiche agricole alimentari e forestali, che “sta lavorando alla possibile regolarizzazione di oltre 600 mila lavoratrici e lavoratori stranieri presenti in Italia … dimostrando quanto ancora oggi per il governo il diritto alla permanenza regolare e il preteso riconoscimento dei diritti di esistenza per i migranti siano esclusivamente funzionali agli interessi imprenditoriali”.
Insomma l’improvvisa riscoperta dell’accoglienza è solo funzionale all’economia dell’impresa. La regolarizzazione dei migranti “è necessaria per rispondere all’«emergenza»… di rapido reperimento di manodopera, più che per tutelare appieno la salute contro i rischi dell’epidemia!”. L’urgenza è tale da “risvegliare” l’apparente spirito umanistico della sinistra istituzionale che, in nome della centralità del sistema economico, si riscopre protesa all’accoglienza degli immigrati, finora tenuti nascosti, in clandestinità, nei sottoscala della Patria, mentre si continua a far morire annegati quelli che si trovano ancora in mare con la scusa dei “porti insicuri” causa virus.