Ci sia consentito di prendere la parola su una serie di questioni – di merito politico, sindacale ed organizzativo- sollevate dai “delegati e lavoratori indipendenti di Pisa” con la nota pubblicata sul loro blog, chiamando criticamente in causa tutte le realtà conflittuali, evidenziandone il loro procedere in ordine sparso anche di fronte alla eccezionalità della crisi che stiamo attraversando al tempo del pandemico contagio virale. Unica eccezione, dove parzialmente s’è riusciti a trovare un minimo di intesa su un obiettivo comune, è stata la convergenza attorno alla rivendicazione del reddito di quarantena, una parola d’ordine unificante su cui, però, non s’è provato ancora – dicono dal blog pisano – “a tradurre la proposta in iniziativa politica, sociale, sindacale e culturale”.
In effetti, la portata di una siffatta rivendicazione, nel tentativo di incidere urgentemente sulle scelte di politica-economica poste al centro dell’agenda governativa, richiederebbe un impatto organizzativo di ben altre dimensioni in grado di superare il limite autoreferenziale in cui spesso cadono le realtà conflittuali oggi esistenti. Per uscire dall’impasse si potrebbe immaginare di dare vita ad una sorta di coalizione reticolare che sia capace di intercettare il consenso diffuso – sempre più montante nella società – sulla introduzione di una qualche forma strutturata di sostegno al reddito, a regime, superando quindi il carattere della transitoria emergenziale. Ma più in generale abbiamo necessità di costruire una massa critica di contrasto al paradigma economico dominate, mettendo sul piatto lo sviluppo di altre forme economiche basate sul mutuo soccorso e la cooperazione sociale, esperienze embrionalmente costituite dall’associazionismo solidaristico e dalla rete autogestite dei centri sociali disseminati nei territori.
C’è in gioco l’idea di ricostruire un “dopo crisi” che, altrimenti, rischia di non vedere gli effetti sociali devastanti generati da una razionalità economica che – viceversa – pensa di regolarizzare le “sproporzioni” dell’odierna crisi, una volta lasciatesi alle spalle quella che è considerata una “variabili esogena” accidentale. Questa è la classificazione economica della pandemia: la logica prevalente è quella di un incidente congiunturale da mettere sotto controllo, senza alterare i capisaldi della governamentalità europea. Così si spiega l’approccio prevalente sul MES, il cui fondo può essere utilizzato per il momento senza alcuna condizionalità, se limitato alla spesa sanitaria correlata alla crisi pandemica da coronavirus, salvo diversa successiva decisione dell’Eurogruppo una volta rientrata l’emergenza. Ancora una volta prevale il principio dell’austerità e della stabilizzazione dei conti che per l’Italia è una condizione capestro ed è la motivazione per cui si è riluttanti alla apertura-trappola della linea di credito disponibile a gravare sul Fondo Salva Stati. Insomma uno scontro aspramente giocato sul tavolo-multilivello della governance europea, che mette in discussione il destino politico ed economico dell’Europa.
È abbastanza chiaro che l’adozione di una limitata azione su specifici programmi di interventi congiunturali (MES, SURE, Fondo-BEI), tutti improntati su misure comunitarie strategicamente transitorie, anche se temporalmente più o meno lunghe, sono finalizzate fondamentalmente al ripristino della “normalità” economica, ristabilendo la centralità del mercato. Siamo ben lontani dal Leitmotiv ricorrente: “dopo la pandemia il mondo non sarà più lo stesso”. Questo sentire comune che ha rimesso in moto un pensiero critico, facendo riemergere stavolta lo spirito solidale e mutualistico che in crisi precedenti aveva lasciato invece spazio agli istinti più bassi ed egoistici, si sta facendo sempre più insistente, mettendo in dubbio tutte le certezze propugnate dal paradigma della stabilità e del laissez-faire.
La priorità comune è quella di salvaguardare la società dal precipizio, con la rivisitazione complessiva delle funzioni pubbliche per ricostituire la rete di protezione sociale distrutta dalla logica mercatistica. Infatti è ormai chiaro a tutti che il neoliberismo porta scolpiti i segni della responsabilità sugli effetti sociali provocati dalla crisi pandemica, a cominciare dallo smantellamento ultradecennale della sanità, con la costante inversione delle risorse dal pubblico verso il privato esaltata dal modello-Lombardia, mito di efficienza ed eccellenza miseramente fallito non per colpa di un eroico personale sanitario, ma per responsabilità dell’intero ceto politico alternatosi al governo di questo Paese.
Questo scenario implica, da parte dei movimenti conflittuali, l’attivazione di una serie di dispositivi che necessitano – da un lato – di andare oltre la gestione di una vertenza categoriale (questo riguarda, in particolare, il sindacalismo di base organizzato nel sistema produttivo pubblico e privato) e – dall’altro – il superamento del localismo delle pur legittime variegate forme di sindacalismo sociale, perché al di là del punto di vista politico, e delle letture sulla realtà “spesso ideologiche e consolatorie”, quel che manca è “una visione complessiva che permetta di individuare obiettivi e pratiche comuni”. Quello che auspica sostanzialmente il gruppo pisano è la fondazione di un agire comune che si lasci alle spalle quella stessa “normalità” pre-pandemia che ha generato una paradossale competizione fra le realtà conflittuali agenti nel mondo del lavoro, forze specificatamente organizzate in modo frastagliato dentro il perimetro del sindacalismo di base che non è mai riuscito a proporsi come alternativa credibile all’offerta confederalistica delle gerarchie politico-sindacali, eredi trasfigurati del movimento operaio tradizionale.
Il terreno di discussione posto all’attenzione di tutta l’area del sindacalismo di base ha effetti pratici concreti. Per esempio un agire comune delle forze conflittuali su scala nazionale potrebbe avere un impatto di caduta che rafforzi i presidi sindacali difesi dalle lavoratrici e lavoratori delegati nei posti di lavoro. Ed è proprio da essi che giunge l’allarme della nuova ondata di repressione: “Molti delegati\e raccontano di essere stati letteralmente abbandonati, basti ricordare dei lavoratori licenziati per avere violato i codici etici e di comportamento aziendali quando invece hanno solo denunciato l’assenza di dpi (dispositivi di protezione) in azienda e il rischio concreto di ammalarsi e morire”. In tal senso si invoca giustamente la necessità di connettere gli uffici legali per “costruire una rete di supporto valida erga omnes”, mentre mestamente fanno rilevare, invece, un procedere “in ordine sparso” nella tutela sindacale.
Ma anche sul versante delle questioni sociali più diffuse, soprattutto quella del contrasto alle vecchie e nuove povertà al tempo del coronavirus, il gruppo pisano interviene sul ritardo nell’elaborazione di un approccio critico complessivo, sia dei gruppi informali che di quelli formalmente associati, in merito agli interventi nei territori dove sostanzialmente è stata assai debole la capacità vertenziale del sindacalismo sociale. Un terreno su cui misurare la capacità d’iniziativa dei movimenti “dovrebbe essere quello dei buoni alimentari”, ma su questa tematica “non siamo andati oltre comitati spontanei che vanno in cerca di cibo dai negozi per distribuirlo gratuitamente ai bisognosi” – scrivono nella loro nota “i pisani”, pur evidenziandone l’importanza. Ma è nel contrasto delle scelte di molte amministrazioni comunali, senza una prospettiva comune di ampio raggio dal basso, che s’è dimostrata tutta le debolezza critica progettuale e i limiti organizzativi: “Sui buoni alimentari – continuano i nostri interlocutori – “abbiamo perso l’occasione di entrare nel merito di cosa sia oggi la povertà e degli interventi necessari per contrastarla”.
Per uscire dalle logiche clientelari e dalle pratiche caritatevoli che, in ogni caso, deprivano i beneficiari da legittimi diritti esigibili (facendo regredire la loro condizione umana e sociale in una sostanziale riedizione del pactum subiectionis), bisognerà necessariamente rivedere i rapporti sociali, e quindi anche quelli economici, alla luce dei limiti funzionali costituzionalmente sanciti che regolano la relazione tra pubblico e privato, subordinando l’azione di quest’ultimo alle compatibilità dell’interesse generale che non potrà essere altrimenti che quello comune della collettività.
In questo senso la richiesta del riconoscimento di un reddito di quarantena ha una funzione resiliente, è una risposta efficace al rischio di disintegrazione del tessuto sociale minacciato dalla crisi. Questa situazione contrassegna un passaggio epocale che sancisce un fatto incontrovertibile: il sistema di produzione dominante non può essere la sola chiave di accesso al reddito né l’economia di mercato può essere il solo filtro per la soddisfazione dei bisogni sociali oggettivati nel valore di scambio. La crisi pandemica paradossalmente ci conduce alla riscoperta di valori che mettono al primo posto la dignità dell’uomo, non come corpo isolato libero di agire nella competizione di forza descritta nello stato di natura hobbesiano, ma come atto volontario di condivisione dei beni comuni, liberando energia in favore della cooperazione sociale posta al servizio di una nuova comunità espansiva.
Se così stanno le cose, le critiche sollevate dai nostri interlocutori pongono un problema vero: “Esiste una linea nazionale che accomuni le realtà conflittuali in tempi di contagio?” È evidente che non c’è! D’altra canto non si può sottacere l’urgenza di mettere in linea un processo politico organizzato, al di là di possibile diverse declinazioni, guardandosi bene, però, dal cedere a facili tentazioni verticiste (come sommatoria delle forze esistenti, ognuna delle quali animate da volontà egemonica) o a nuove verticalizzazioni strategiche riassuntive delle molteplici istanze spendibile fuori dall’orizzontalità come mero strumento. Quel che in sostanza non si riesce a cogliere sino in fondo è la straordinaria ricchezza critica espressa dall’essere sociale, il quale proprio dentro la pandemia ha fatto riscoprire il valore delle reti protettive e di sostegno umano verso l’altro da sè, sapendo cogliere parimenti tutta la debolezza del paradigma che ancora il pensiero mainstream, al servizio della razionalità dominate, si affanna a voler ri-stabilizzare.
Dalla società sembra emergere, quindi, una prospettiva più avanzata rispetto alle realtà conflittuali strutturate. Il ritardo organizzativo è un limite tutto dentro la concezione della forma centralizzata, mentre dal basso si danno forme reticolari capaci di mettere in comune idee e pratiche alternative prive di strutture gerarchiche, ma che non hanno ancora raggiunto un grado di pressioni abbastanza incisivo da invertire il corso degli eventi. Pertanto, i limiti finora descritti non possono essere attribuiti soltanto alle singole organizzazioni nazionali, ma anche ai “coordinamenti che vorrebbero presentarsi dal basso quando poi sono frutto di realtà, magari piccole”, anche se è pur vero che l’accelerazione per rimuovere il limite, quello di dare continuità ed organicità alla massa critica agendo sul terreno comune, dipende anche da ogni realtà più o meno radicata che sia. Anzi, è proprio nella dimensione complessiva territoriale e politica che si può ingenerare l’allargamento delle piccole ma spesso generose realtà conflittuali e alternative. Certo una mano potrebbero venire pure da parte delle formazioni strutturate esistenti, si tratta di capire quanto siano disposti volontariamente a mettersi al sevizio di ciò che di nuovo sta emergendo dalla società.