Con 12 casi di coronavirus già accertati, la Striscia di Gaza – una regione abitata da 2 milioni di persone, con una densità di popolazione tra le più alte al mondo – rischia una nuova emergenza umanitaria. Da tempo le organizzazioni denunciano povertà e assenza di servizi di base, una crisi inasprita dal blocco alle importazioni imposto da Israele dopo il conflitto con Hamas, nel 2006. Ora, l’epidemia di Covid-19 “spinge il sistema sanitario al collasso”, ha avvertito in questi giorni Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario nei Territori palestinesi per le Nazioni Unite.
L’amministrazione locale, guidata da Hamas, ha imposto alcune misure per limitare la trasmissione del virus tra cui la chiusura di caffè, ristoranti e sale per feste. Disposizioni a cui la popolazione si è dimostrata sensibile: hanno fatto il giro del web le foto di una coppia di sposi che, rinunciando ai festeggiamenti, ha celebrato le nozze con indosso le mascherine
insieme a damigelle e solo una ventina di invitati a fronte dei 400 iniziali. Mentre il movimento ‘Marcia del ritorno’, che lunedì scorso avrebbe celebrato il suo secondo anniversario, ha annullato nuove manifestazioni di protesta lungo la barriera di separazione con Israele proprio per scongiurare nuovi contagi.
A preoccupare gli esperti è però soprattutto la carenza di farmaci, materiali medico-sanitari, dispositivi di protezione individuale nonchè il gasolio per alimentare le apparecchiature
per le terapie intensive. Per questo, varie associazioni hanno indetto iniziative di solidarietà. Tra queste, quella del movimento Jewish for Peace che ha indetto un “Twitterstorm”, una pioggia di tweet con l’hashtag #spreadsolidarity (‘che la solidarietà dilaghi’) e altri messaggi con cui invocare la fine dell’embargo e il via libera all’ingresso delle forniture mediche necessarie.
Sollecitata anche la collaborazione tra Hamas, l’Autorità nazionale palestinese – che amministra la Cisgiordania – e Israele.