Venerdì 9 maggio, ore 18, Casa Internazionale delle Donne di Roma: una mostra di artiste che rendono omaggio alla Potnia con i loro lavori e una festa che celebra le Antenate danno avvio al convegno per onorare Marija Gimbutas a vent’anni dalla morte.
Sabato 10 maggio, ore 9,30. La sala principale, lunga e stretta, si riempie rapidamente e chi arriva più tardi trova posto in una saletta più piccola, dove gli interventi vengono trasmessi in video. Almeno duecento persone, nella stragrande maggioranza donne, attendono impazienti l’inizio del convegno. C’è anche un tavolo con i libri dall’archeologa, mitologa e linguista che ha rivoluzionato la visione della storia antica, accompagnati da manifesti e dalle pubblicazioni dei tanti ricercatori e scrittori che si sono ispirati al suo lavoro.
Morena Luciani, Presidente dell’associazione LAIMA e Luciana Percovich, direttrice della collana di Venexia Le Civette-Saggi, organizzatrici del convegno insieme a Daniela Degan e Sarah Perini, introducono i lavori entrando subito nel vivo: si tratta di uscire dalla gabbia dell’immobilismo in cui ci hanno costretti gli ultimi 5.000 anni di storia, di ritrovare le nostre radici e creare nuove immagini che diano speranza ed energia al futuro. Grazie al lavoro rivoluzionario di Marija Gimbutas e al suo approccio multidisciplinare non si può più dire che non si sa cos’è successo nel passato: è questo il profondo insegnamento che lei ci ha lasciato. Certo, si può scegliere di contestare e degradare la sua visione, ma nemmeno gli archeologi più tradizionalisti ormai possono ignorarla.
L’immagine dell’Europa Antica che emerge fin dall’inizio del convegno è affascinante: una civiltà pacifica, armoniosa e paritaria, tutt’altro che “primitiva”, basata sulla collaborazione e il rispetto per la natura e dotata di una profonda spiritualità. Una civiltà che onora la donna, ma non opprime e discrimina l’uomo. Una Dea che incarna la nascita, la vita, la morte e la rigenerazione senza contrapporle, in un ciclo infinito.
Joan Marler, stretta collaboratrice di Marija Gimbutas negli ultimi anni della sua vita e presidente dell’Istituto di Archeomitologia, getta una luce illuminante sull’ambiente familiare della studiosa: conosciamo così la madre e la zia, tra i primi medici donne del suo paese, la Lituania e la coraggiosa lotta dei genitori per preservarne le tradizioni e la lingua sfidando le proibizioni dei dominatori polacchi. Non c’è da stupirsi che un ambiente del genere abbia prodotto una donna forte e decisa a sfidare teorie statiche e una visione della preistoria violenta e guerresca che, secondo le sue stesse parole, la faceva stare male. Meglio allora dedicarsi a studiare il Neolitico, periodo ignorato e disprezzato, che invece porta una ventata di felicità nella sua vita.
Harald Haarmann, linguista, vice-presidente dell’Istituto di Archeomitologia americano, di cui dirige la succursale europea in Finlandia, inizia il suo intervento mostrandoci una foto aerea di un monumento che riconosciamo subito: l’Acropoli di Atene. Poi sconvolge tutto ciò che pensavamo di sapere al riguardo, a cominciare dal suo nome originale, roccia, sacra perché domicilio della dea Atena, il cui culto però è la continuazione e la trasformazione di un culto più antico. E le sorprese non sono finite: circa 2.000 elementi pre-ellenici, che Haarmann fa risalire al popolo dei Pelasgi, discendenti delle genti dell’Antica Europa, designano nomi di divinità e termini arrivati fino a noi come altare, santuario, festa, processione rituale, bosco sacro, inno. Tutti elementi centrali della cultura greca che in realtà risalgono a un periodo precedente.
Conclude la mattinata Mariagrazia Pelaia, traduttrice del volume “La Civiltà della Dea”, che sintetizza l’intervista fatta a Zivile Gimbutas, figlia di Marija, offrendoci spunti sulla sua vita di madre e donna e i suoi interessi culturali e spirituali.
La sessione del pomeriggio dimostra come gli studi sulla Dea e la civiltà che la venerava siano più vivi che mai e forniscano spunti e scoperte continui. E’ quasi un vortice che ci trascina, facendoci passare dalla Puglia alla Sardegna, dall’Abruzzo alle Dolomiti, dalla Val d’Aosta agli Etruschi, dalla grotta dipinta di Chauvet, in Francia, a quella dei Cervi in Puglia. Sirka Capone, Filomena Tufaro, Laura Leone, Sarah Perini, Giovanni Feo, Adele Campanelli, Maria Cristina Ronc e Valerie Aliberti hanno il difficile compito di sintetizzare le loro ricerche in interventi di un quarto d’ora. Il panorama che ne esce conferma che c’è ancora molto da scoprire e da riscrivere nella storia, che il processo umano va ricostruito, gettando un ponte tra il presente e civiltà passate dimenticate, cancellate o travisate, che pure possono fornire spunti e insegnamenti preziosi. E come nel presente assistiamo a una sfacciata manipolazione dell’informazione, a un cinico e intenzionale oblio di tutto quanto va controcorrente e mette in discussione il sistema dominante, a una sistematica degradazione delle alternative che già ora si stanno sviluppando, così dobbiamo riconoscere che la stessa operazione si è compiuta e si compie rispetto al passato. E allora bisogna dare voce e spazio a chi è stato cancellato, che sia l’artista che trentamila anni fa ha dipinto i meravigliosi animali della grotta di Chauvet o chi oggi costruisce alternative nonviolente alla violenza in tutte le sue forme.
L’ultimo intervento di Sandra Schiassi, provocatorio e divertente, ci riporta con i piedi per terra e offre speranza e aria nuova.
Un convegno stimolante e ispiratore, da cui si esce con tanti appunti scritti in fretta, con una miriade di domande e curiosità che si agitano nella mente, con nuove conoscenze che si ha già voglia di rivedere e una meravigliosa sensazione di energia e futuro aperto.