Il contagio da coronavirus, ormai di livello mondiale, ha richiamato l’attenzione su un’iniziativa finanziaria della Banca Mondiale che sta scontentando tutti, ma per una piena comprensione della storia servono un paio di premesse. La prima sulla natura e le funzioni della Banca Mondiale. La seconda sulle epidemie da virus che negli anni passati hanno investito Africa e Asia.
La Banca Mondiale nasce nel 1944 dagli Accordi di Bretton Woods in coppia col Fondo Monetario Internazionale; mentre quest’ultimo è deputato alla vigilanza della stabilità finanziaria internazionale, la Banca Mondiale è incaricata di assistere i paesi meno sviluppati sul piano economico e sociale. Trattandosi di una banca, il suo compito principale è fornire prestiti non solo a governi, ma anche a imprese. Pertanto la sua struttura comprende più bracci operativi: in particolare l’IFC (International Financial Corporation) per prestiti a privati, l’IBRD (International Bank for Reconstruction and Development) e l’IDA (International Development Association) per prestiti a governi.
Abitualmente la Banca Mondiale non si occupa di aspetti sanitari, ma alcuni fatti avvenuti in Africa dopo il 2010, l’hanno indotta ad accendere i riflettori anche su questo settore. Il 26 dicembre 2013, in un villaggio sperduto della Guinea, un bambino di due anni è colpito da febbre alta accompagnata da vomito e feci nerastre, sintomo tipico di chi perde sangue dal tratto digerente. Due giorni dopo il bambino muore. Nelle settimane successive altre morti misteriose si susseguono nei villaggi circostanti. Alcuni pazienti raggiungono l’ospedale di Gueckedou e viene fatta diagnosi di colera, ma le strane morti continuano. Ormai è il marzo 2014 e anche nella capitale Conakry cominciano a comparire i primi casi. Di fronte a un evento così singolare un’equipe di Medici senza Frontiere, presente nel paese, invia un rapporto al proprio ufficio di Ginevra che avanza l’ipotesi di ebola, una malattia virale inizialmente trasmessa da pipistrelli e altri animali della foresta, ma poi direttamente propagabile da umano a umano tramite secreti. Alcuni campioni inviati nel frattempo al Centro Pasteur di Parigi tolgono ogni ombra di dubbio: si tratta della temibile malattia, anche nota come febbre emorragica, che preoccupa soprattutto per la sua letalità. In un anno i morti sono 11mila, non confinati solo alla Guinea, ma estesi a tutta l’Africa occidentale, in particolare Liberia e Sierra Leone.
Nel 2016 il focolaio dell’Africa Occidentale è ritenuto spento, ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità sa che se ne possono riaccendere di nuovi in qualsiasi altro paese scarsamente attrezzato sul piano igienico e sanitario. E in effetti ricompare nel maggio 2017 nella Repubblica Democratica del Congo ed è in questo frangente che la Banca Mondiale decide di istituire un Fondo, denominato PEF (Pandemimic Emergency Financial Facility), col compito di concedere somme a fondo perduto ai paesi più poveri colpiti da emergenze sanitarie comprendenti non solo epidemie da ebola, ma anche da coronavirus come quella della Sars che colpì la Cina nel 2002-2003. Nell’immaginario collettivo il modo più naturale per raccogliere fondi da regalare è tramite donazioni richieste a chiunque voglia contribuire. In effetti i primi soldi arrivati al PEF sono stati contributi del governo tedesco e giapponese, che complessivamente hanno versato 125 milioni di dollari. Ma il vincolo è che non siano utilizzati solo in assistenza diretta ai paesi in emergenza sanitaria, ma anche per la promozione di un fondo assicurativo.
A questo punto il discorso si fa macchinoso, ma va approfondito per capire i rischi a cui si espone la finanza pubblica quando si affida alla finanza creativa. Nell’intento di raccogliere più soldi, il PEF ha deciso di aprirsi ai prestiti dei privati da utilizzarsi come fondo assicurativo. In concreto nel giugno 2017, con l’assistenza della società assicuratrice Munich Re, ha emesso obbligazioni con scadenza luglio 2020 a tassi di interesse variabili fra il 6,9 e l’11,9%, in base al livello di rischio sottoscritto. In effetti, in cambio di così alti rendimenti, gli investitori dovevano dichiararsi disponibili a perdere quote di capitale più o meno alte in base al tipo di epidemia con le quali erano disposti a coinvolgersi. La casistica, messa a punto dalla società di consulenza AIR Worldwide Corporation, è assai complessa e articolata, ma può essere sintetizzata in numero di morti. Tasso al 6,9% e parziale decurtazione del capitale se si è scelto di indennizzare epidemie con numero di morti inferiori a 250; tassi di interesse all’11,9% con decurtazione anche totale del capitale se si è scelto di indennizzare eventi con più di 2.500 morti.
Il problema è che con c’è chiarezza sugli automatismi che fanno scattare l’obbligo assicurativo ed è questa una delle principali critiche mosse al PEF. In effetti, il fondo dispone di due linee di finanziamento ben separate fra loro: una di tipo discrezionale, l’altra di tipo assicurativo. Quella di tipo discrezionale è gestita a giudizio insindacabile dei responsabili del fondo. Quella di tipo assicurativo, invece, presuppone l’esistenza di una serie di condizioni definite da un apposito disciplinare. Quanto alle risorse, quelle per le erogazioni di tipo discrezionale sono piuttosto limitate e tutte di origine pubblica. Fino ad oggi si è trattato di una sessantina di milioni di dollari messi a disposizione dal governo tedesco e australiano. Praticamente tutti spesi per fronteggiare le epidemie di ebola che si sono verificate nel 2018 e 2019 nella Repubblica Democratica del Congo, per un totale di duemila morti.
Le risorse della linea assicurativa sono molto più abbondanti, giungendo a poter coprire fino a 425 milioni di dollari, ma sorprende che fino ad oggi non siano mai state utilizzate. Eppure un articolo apparso il 9 ottobre 2019 sul British Medical Journal sostiene che in Africa le condizioni per far scattare la copertura assicurativa c’erano. Secondo la rivista, l’assicurazione non è stata attivata per non danneggiare gli investitori, che non solo continuano a trovarsi col loro capitale integro, ma hanno già incassato interessi per 114 milioni e premi per 36 milioni di dollari. Soldi in parte messi a disposizione dalla Banca Mondiale in parte dal governo giapponese e tedesco, che in ogni caso sarebbero stati spesi meglio se devoluti direttamente ai popoli in emergenza sanitaria.
Ora, però, la pandemia mondiale da coronavirus Covid19 potrebbe mettere a serio rischio i soldi degli investitori, perché di fronte a un fenomeno così massiccio il PEF difficilmente potrebbe negare la copertura assicurativa ai paesi poveri che bussassero alla sua porta. L’ora della verità potrebbe arrivare a fine marzo allorché sarebbero passate 12 settimane dall’inizio della nuova epidemia, il tempo canonico che il regolamento impone prima di attivare la copertura assicurativa. Qualora a fine marzo l’epidemia fosse ancora in corso, ne uscirebbero tutti sconfitti: i paesi alle prese con il virus perché sarebbero stati a casse vuote proprio quando avevano più bisogno di denaro e gli investitori costretti a rinunciare a parte del loro capitale. La conclusione del British Medical Journal è che sarebbe meglio evitare certi intrecci finanziari, provvedendo alle emergenze sanitarie con accantonamenti provenienti unicamente da fondi governativi o anche privati, purché sotto forma di donazioni.