Davanti al piccolo supermercato del paesino più vicino a casa mia ieri c’era una coda di venti persone. Nel parcheggio quadrato di fronte all’entrata avevano allestito 4 gazebo di 2mt x 2mt e posizionato una quindicina di sedie alla distanza di 1mt-1,5mt l’una dall’altra. Un signore con mascherina e guanti di fronte alla porta scandiva i numeri che potevano entrare – e che ogni nuovo arrivato staccava da un rotolo di numeri di carta appeso a un palo della postazione dei carrelli -, solo dopo l’uscita di altrettante persone dal negozio.
Le persone si sono accomodate sulle sedie, chi all’ombra, chi al sole e chi a metà. Nessuno ha tirato fuori lo smartphone. Ci si guardava, ci si sentiva. Una signora ha approfittato del pubblico per fare una sciarada anti-governo e anti-gente-che-non-rispetta-
In Svizzera la madre ottantottenne del mio compagno ieri ha deciso di fare la spesa da sola al supermercato in barba ai suggerimenti che, anche lì, vorrebbero che gli anziani si rinchiudessero in casa. É la generazione che ha visto la guerra nella sua infanzia e adesso, al tramonto della sua esistenza, si trova immersa in un’altra specie di guerra che fa riaffiorare sinistre eco.
In realtà a tutti, di tutte le generazioni, il tema del “contagio” e la perdita delle libertà di azione e di movimento, fanno affiorare le paure più oscure e, da questa situazione di sensibilità, possono sorgere le manifestazioni più alte e più basse dell’umanità.
Un’amica mi ha raccontato che a Milano il clima si fa sempre più pesante, urlano le sirene delle autoambulanze, vengono a prelevare i vicini di casa, i supermercati hanno preso un aspetto lugubre.
Chi ha la fortuna di avere una famiglia premurosa, una convivenza serena o una solitudine gradita intorno a sé, riesce in qualche modo a mantenere un centro di gravità, anche con il contatto frequente con le persone care attraverso la tecnologia, che sta adesso svolgendo un ruolo fondamentale. Le connessioni e video-chat si moltiplicano per qualsiasi argomento, dall’e-learning ai meeting di gruppi e associazioni, al semplice aggiornamento familiare o fra amici.
Si impara a sentirsi da lontano. Si scopre di poter far a meno di tante cose.
Ma chi è veramente solo? Chi ha risorse economiche molto limitate e vede profilarsi un futuro pericoloso? Chi ha intorno un ambiente incapace di reagire positivamente a questa eccezionale situazione? Chi non ha dove rinchiudersi? Chi è già psicologicamente labile? Questa situazione può causare delle escalation psicosociali che ancora non ci possiamo immaginare ma di cui, se questa quarantena durerà a lungo, potremmo essere presto spettatori.
Quando c’è la salute c’è tutto, dicevano i nonni. Per quanto riguarda quella fisica le attuali misure puntano a proteggere noi e i nostri cari, ma dovremmo aggiungere alla parola “salute”, anche l’aggettivo “mentale”. E su questo fronte tutti possiamo essere di aiuto, non c’è bisogno di essere medici o infermieri. Tutti possiamo essere più attenti a coloro che ci circondano, mantenerci in contatto, far sentire la nostra presenza. Tutti possiamo metterci nei panni di chi ha difficoltà diverse dalle nostre e cercare di essere utili anche da casa, tutti possiamo risvegliare un sentimento collettivo che è inciso nei nostri geni dalla nostra storia e che non deve essere messo in discussione da una minuscola catena proteica, chiamata virus.