Le situazioni di crisi, ancor più se sono collettive, sanno scoperchiare il vaso di Pandora della individuale interiorità. Nella mitologia esso era il contenitore di tutti i mali dell’umanità che una volta aperto avrebbe riversato sul mondo tutti i mali peggiori; Pandora aveva ricevuto il vaso da Zeus che l’aveva raccomandata di non aprirlo ma la curiosità fece il suo gioco e sappiamo come è andata finire. Lasciamo da parte al momento il fatto che è colpa di una donna se ciò è accaduto, non mi stupisco del maschilismo originario, invece concentriamoci sulla fuoriuscita dei mali che ci hanno contaminati. Il male ci vive accanto, esiste tra noi, alloggia dentro di noi e dobbiamo farci i conti al di là dell’attuale situazione. La pandemia, termine che deriva da Pan il dio greco delle selve che non si doveva disturbare altrimenti emetteva urla terrificanti capaci di provocare una paura incontrollabile, sta facendo venire alla luce il meglio ma anche il peggio di noi tutti: la solidarietà e anche la discriminazione. Dobbiamo fare i conti così con il nemico che ci vive dentro, nemico nostro perché ci fa stare male costantemente e nemico altro, chi è fuori: chiunque sappia reagire alla paura senza farsi catturare dal panico. Ma chi è il nemico interiore? È l’incapacità di reagire con coraggio alle avversità, è la nostra fragilità, è la paura di diventare vittime del contagio panico. Se l’altro riesce a esorcizzare con canti, battute di spirito e applausi diventa un insensibile menefreghista. Ma cosa ne sappiamo quanto e cosa prova nella sua interiorità? E perché non lo lasciamo libero di esprimersi? Perché abbiamo il terrore del contagio e questo ci annebbia costantemente la mente mentre il nostro corpo soffre. Ce lo dicono i medici a partire dai tempi antichi quando Ippocrate si rese conto dell’unità psicosomatica che ci caratterizza come esseri umani: il corpo si ammala se la paura non cessa di essere un allarme e diventa la quotidianità. Nel mondo ogni giorno muoiono tanti nostri fratelli umani per guerre, carestie, ingiustizie e non credo si possa essere costantemente in lutto. Nessuno si sognerebbe di dire “non vivere, non amare, non ridere…” perché in questo momento stanno morendo di fame i piccoli africani o siriani. Se noi non sappiamo esorcizzare il dolore e convivere con un malattia collettiva meglio cercare la strada per imparare, piuttosto che scagliarsi, a volte con violenza, contro l’altro che fortunatamente ci riesce. È sempre il diverso che ci fa paura?
Il corpo sottomesso a questo stress continuo si ammala e noi con lui, vogliamo che accada? Non credo. Dobbiamo quindi trovare il nostro luogo di ristoro e non pensare costantemente al covid 19.