Il 14 giugno 1921 la Seconda Conferenza internazionale delle donne comuniste, tenutasi a Mosca, istituisce l’8 marzo – Giornata internazionale dell’operaia. Un’iniziativa che si colloca nel solco delle battaglie condotte da diverse organizzazioni femminili, attive già a partire dalla seconda metà nell’Ottocento, che miravano a ottenere diritti civili, sociali e politici da cui le donne erano escluse.
Di rivendicazioni delle donne e di lavoratrici racconta una pagina di storia caduta nell’oblio che ho avuto modo di rinvenire qualche tempo fa e che, in prossimità dell’8 marzo, desidero condividere. Un fatto documentato da più fonti che mi ha appassionata e che ha sollecitato in me molteplici considerazioni e riflessioni, una vicenda che prese le mosse da Palermo ma le cui refluenze interessarono l’intera Penisola. Nella fattispecie, si tratta della battaglia giudiziale per il riconoscimento degli anni di lavoro “precario” ai fini pensionistici, condotta da alcune impiegate statali palermitane, i cui benefici si estesero alle lavoratrici e i lavoratori del comparto pubblico, per effetto del giudicato favorevole pronunciato in sentenza.
Tutto ebbe inizio dal “caso doloroso della signorina Patanè”, telegrafista ausiliaria presso l’Ufficio telegrafico di Palermo, “che – come riporta il periodico “femminista” Vita femminile Italiana del 1907 – ammalatasi, e ridotta a non poter più prestare servizio, si trovò letteralmente senza risorse” ma che – grazie al sostegno delle compagne di lavoro – riuscì ad ottenere la pensione. Infatti “le ausiliarie anziane” – commenta la articolista – incoraggiarono la “povera collega a portare il caso dinanzi al Consiglio di Stato”. Si autotassarono tutte per “una piccola somma” in modo da poter sostenere assieme le spese giudiziarie, perché comprendevano che il riconoscimento del diritto alla pensione della compagna “interessava vitalmente anche la causa del loro avvenire” in quanto avrebbe assicurato “alle impiegate anziane che contavano ormai quindici e vent’anni di servizi, un pane per la vecchiaia”. Si trattò – osserva la cronista – di “un passo grandissimo verso la giustizia”.
Questa mobilitazione delle telegrafiste palermitane mi è parsa una risposta concreta agli interrogativi che Anna Kuliscioff – in modo retorico – pone a Napoleone Colajanni in una lettera del 1885: “la cooperazione, la mutualità e la solidarietà derivano esse dall’altruismo, o sono semplicemente risultati della lotta per l’esistenza di vincere la natura, una cooperazione vicina nella società primitiva, o per lottare contro il capitalismo nella società moderna?”.
Ma se, in merito alle rivendicazioni sociali, la Kuliscioff e Colajanni agivano sullo stesso terreno del pensiero socialista, ben altra cosa era la posizione del parlamentare di sinistra, in ordine al riconoscimento dei pieni diritti civili e politici alla donna. Come riportato in Vita Femminile Italiana del 1908, inserendosi nel dibattito sul diritto al voto delle donne, l’onorevole Colajanni cercava di dimostrare “l’inutilità di molte ricerche sul numero probabile di elettrici per censo o per capacità”, proponendone “altre di indole morale, intese a dimostrare quale ripercussione ha sulla moralità della donna e sulla delinquenza dei figli minorenni la maggiore partecipazione della donna alla vita sociale”.
Questo il pensiero maschile dell’epoca a tutti i livelli, di cui Anna Kuliscioff mostra di essere ben consapevole almeno dal 1890, quando, in Il monopolio dell’uomo, metteva a nudo la cecità dei suoi stessi compagni di lotte rispetto alle rivendicazioni delle donne. Infatti, osservando le tante che deviano “dal binario tradizionale della vita femminile” ma soprattutto a partire dalla propria esperienza, la Kuliscioff dichiarava di avere ben compreso “che, se per la soluzione di molteplici e complessi problemi sociali si affaticano molti uomini generosi, pensatori e scienziati, anche delle classi privilegiate” quando si trattava di mettere in discussione le prerogative maschili, “salvo poche eccezioni”, gli uomini “di qualunque classe, per una infinità di ragioni poco lusinghiere per un sesso che passa per forte, considerano come un fenomeno naturale il loro privilegio di sesso e lo difendono con una tenacia meravigliosa, chiamando in aiuto Dio, chiesa, scienza, etica e le leggi vigenti, che non sono altro che la sanzione legale della prepotenza di una classe e di un sesso dominante”.
È probabile che tra i pochi socialisti, disposti a concedere almeno alcune delle rivendicazioni delle donne, ci fosse Filippo Turati, dal 1885 compagno di vita e di lotte della Kuliscioff. E forse non è un caso che fra gli interventi dell’onorevole Turati alla Camera dei deputati ritroviamo le nostre telegrafiste – Maria Patanè e le sue compagne –, in quanto la loro battaglia legale, presa a riferimento come precedente giurisprudenziale, mostrava di essere utile nella discussione parlamentare che l’esponente del partito socialista aveva intrapreso per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti alle lavoratrici e ai lavoratori della pubblica amministrazione. Nella seduta del 19 novembre 1909, ad esempio, rivolgendosi al Ministro delle Poste e Telegrafi, Turati ricordava il caso della signora Patanè, “un’ausiliaria telegrafica di Palermo”, la quale – precisava il leader socialista – “per molti anni era rimasta fuori ruolo, e dovette lasciare il servizio senza che fossero decorsi gli anni per la pensione”. Una volta respinta la sua richiesta da parte del Ministero – puntualizzava ancora Turati –, la telegrafista aveva fatto ricorso al Giudice che in ultimo le aveva riconosciuto il suo diritto a pensione. “Quello fu un caso tipico” perché grazie alla vertenza di una “avete dovuto ammettere a pensione – osservava Turati rivolto al Ministro – tutte le altre, che si trovavano nel medesimo caso”.
Sicuramente nel 1889 Maria Patanè prestava servizio in qualità di ausiliaria presso l’Ufficio telegrafico di Palermo, come risulta dalla consultazione del Calendario Generale del Regno d’Italia di quell’anno, dove la Patanè è menzionata assieme a Autore Maria, Berretta Maria, De Francisci Giuseppina, Figlioli Rosalia, Trapani Contessa, D’Aquila Rosalia, Petry Concettina, Provenzano Antonina, Mazza Costanza, Mazza Maria, lavoratrici che qui mi piace richiamare perché è probabile che alcune di esse siano state tra le compagne rimaste anonime di questa pagina di storia dimenticata.
Quando, per motivi di salute, l’ausiliaria palermitana era stata costretta a lasciare l’impiego, aveva maturato almeno 13 anni di servizio, come è facile ricavare dall’annuncio contenuto nella Gazzetta Ufficiale del Regno D’Italia di lunedì 23 giugno 1902 in cui viene riportato che “Patanè Maria, ausiliaria telegrafica di 2° classe a L. 1600” era stata “collocata in aspettativa, in seguito a sua domanda” a decorrere del 1° maggio di quello stesso anno.
Ma molti di più dovettero essere gli anni effettuati dalla Patanè come precaria, perché nella tornata parlamentare di lunedì 5 giugno 1911, l’onorevole Turati, nel rivendicare l’estensione del diritto conseguito dalle telegrafiste di Palermo ad altri lavoratori del pubblico impiego, affermava che fra le ausiliarie palermitane ve ne erano “con venticinque, trent’anni di servizio e solo dieci di ruolo”, ribadendo, ancora una volta, che a tutte loro “fu riconosciuto dalla Corte dei conti, nella nota causa Patanè, come valido per la pensione il servizio straordinario prestato”.
Al di là dell’arida cronaca parlamentare, quale fosse la condizione umana e morale delle lavoratrici nel settore dei telegrafi tra Otto e Novecento ce lo rivela la grande scrittrice e giornalista Matilde Serao nel racconto Telegrafi di Stato (Sezione femminile) del 1886. “Le trattavano come tante bestie da soma – spiega la Serao – con quei tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia e invece – tiene a puntualizzare la giornalista che giovanissima, compiuti gli studi da maestra, era stata ausiliaria presso l’Ufficio telegrafico di Napoli – esse avevano quasi tutte il diploma di grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di seconda classe, che avevano duecento lire il mese”. Diversamente dagli uomini “non erano nominate né con decreto regio né con decreto ministeriale” era bastevole per loro “un semplice decreto del direttore generale, revocabile da un momento all’altro”. Inoltre – prosegue nella sua descrizione la Serao – se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa tutte, senza che avessero diritto di lagnarsi”. Quale avvenire si prospettava a queste donne? “Erano fuori pianta, non avevano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento, che a quarant’anni il Governo le licenziava, senz’altro: — cioè se avevano la disgrazia di restar telegrafiste sino a quarant’anni, il Governo le metteva sulla strada, vecchie, istupidite, senza sapere far altro, consumate nella salute e senza un soldo”.
Una pagina di letteratura questa che rende ancor più luminosa la vittoria conseguita dalle telegrafiste palermitane, che avevano iniziato ad essere inquadrate nell’organico del Ministero solo a partire dall’applicazione del Reggio Decreto del 26 gennaio 1899. Ma è in altre parti del romanzo che la Serao mette a fuoco in modo magistrale gli sguardi complici, le parole affettuose, i gesti solidali di questa comunità di sole donne. Una constatazione quest’ultima che mi interroga su quanta parte abbia avuto nella storia della Patanè il senso di partecipazione alla vita dell’altra, il prendersi cura dell’amica, sentimenti che, soprattutto in condizioni di miseria e di ristrettezze, a volte affiorano nelle relazioni tra donne anche con esiti imprevedibili, come quello occorso presso la sezione telegrafica femminile di Palermo.
In sostanza la domanda della Kuliscioff – “la cooperazione, la mutualità e la solidarietà derivano esse dall’altruismo, o sono semplicemente risultati della lotta per l’esistenza di vincere la natura, una cooperazione vicina nella società primitiva, o per lottare contro il capitalismo nella società moderna?” – , offre, a mio avviso, una seconda più incisiva risposta nell’azione della stessa militante socialista. Racconta Mario Bova che la dottora, così chiamavano Anna Kuliscioff negli ambienti popolari – aveva conseguito la laurea in medicina a Zurigo – la si vedeva “spesso salire, gracile e leggera, fino lassù, in alto, al terzo o al quarto piano” delle “molte povere case della vecchia Milano”. Le sue pazienti erano “operaie, bambine, giovinette ammalate, mogli, madri, sorelle di modesti impiegati o professionisti. Tutta gente in pena. La visita della dottora – sottolinea Bova – era sempre attesa come una benedizione. Non era, infatti, la visita di un medico. Era qualche cosa di più. La scienza ha scarse risorse, ma una buona parola può essere un balsamo; e Anna Kuliscioff la diceva come sapeva dir Lei”. Un modo di accostarsi ai bisogno materiali, morali e intimi delle altre donne che mostra quella particolare dimensione femminile di stare al mondo e di agire nel mondo che molti dei suoi compagni di partito non erano in grado di rilevare. Antonio Labriola, ad esempio, in una corrispondenza del 1° luglio 1893 scriveva a Fridrich Engels che “a Milano non c’è che un uomo, che viceversa è una donna, la Kuliscoff”.
Avviandomi alle conclusioni, faccio osservare che il tirar fuori dall’oblio la storia della Patanè con le possibili analogie che affiorano da sole in relazione alle condizioni del lavoro femminile e maschile nel nostro tempo, in pieno trionfo del sistema neoliberista – penso, ad esempio, al settore del call center –, ci mostra quante delle conquiste ottenute nello scorso secolo stiamo perdendo ogni giorno, mette a fuoco l’azione concreta delle donne nella storia civile, sociale e politica ma, soprattutto, rivela il pensiero e l’agire delle donne in quegli anni attraverso una militante consapevole del suo essere donna come fu la Kuliscioff, che ebbe tanta parte nelle lotte per le rivendicazioni sociali in Italia.
In una lettera pubblicata sul quotidiano milanese Il Secolo – Gazzetta di Milano dell’agosto del 1880, Anna Kuliscioff, denuncia le condizioni dei detenuti politici, esponendo se stessa, il suo corpo di donna, in quel momento in carcere, per mostrare all’opinione pubblica le sofferenza di tanti giovani socialisti ospitati nelle galere italiane. Un’azione politica contrassegnata, a mio parere, da ardore e coraggio materni che mostra fortissime analogie con l’agire, ai nostri giorni, di Nicoletta Dosio.
Scrive Anna Kuliscioff:
“Se si trattasse d’un fatto isolato, o solo di me personalmente, io non mi sarei, non solo fermata lungamente su questo argomento non ne avrei neanche parlato; ma si tratta invece d’una questione assai più grave e generale, di cui il mio fatto non è che un debole riflesso; d’un sistema odioso di lunghe detenzioni preventive, di procedimenti giudiziari basati su prove che farebbero rider i polli, quando si tratta di socialisti. (…)
Appunto, per richiamare l’attenzione pubblica su questo argomento, profittando del mio caso, vi scrivo queste righe per far palese alla società quali delitti commettono le autorità giudiziarie in nome della loro giustizia; delitti per i quali, pur troppo non esistono codici penali e si ammazzano letteralmente dei giovani pieni di vita e d’energia (…).
Tutti inorridiscono del modo con cui si trattano i giovani socialisti in Russia; ma nessuno pensa neanche che in un paese costituzionale, che vanta di possedere una libertà politica, libertà d’opinione e d’associazione, si commettano simili fatti (…), fatti che sono propri di uno stato autarchico”.
A chiusura di questo contributo alla storia delle battaglie condotte dalle donne in Italia, scritto per ricordare la giornata di lotta dell’8 Marzo, sento l’urgente necessità di rilanciare l’appello pubblicato dalla Biblioteca delle Donne UDI Palermo lo scorso gennaio “Dare voce a Nicoletta Dosio non è reato” , perché l’episodio illuminante di Maria Patanè e le altre conquiste che le donne hanno ottenuto per tutte e tutti non vengano cancellate, infine, perché sono convinta che l’azione umana e politica di Anna Kuliscioff dovrebbe ancora interrogarci nel presente.
Ketty Giannilivigni