Ieri era il 24 aprile 2014. Per un turco di Istanbul non è una data facile. Provo a spiegarvi perché.
Partiamo dal giorno precedente, il 23 aprile. Questa data è in teoria la festa nazionale dei bambini e l’anniversario della fondazione del primo Parlamento Nazionale (1920), che ha dato vita alla nuova Repubblica di Turchia. Come bambino bianco, turco, residente a Istanbul, nato e cresciuto in una famiglia ex operaia e poi piccolo borghese, avevo sempre percepito il lato giocoso e festoso di questa giornata. Parlo delle cerimonie obbligatorie che facevamo a scuola. In una giornata di festa nazionale dedicata ai bambini, ci raggruppavano in cortile, in fila per due, divisi per classe, tutti rivolti verso l’altare. Dapprima si ascoltava e si cantava l’inno nazionale e l’inno della scuola, poi prima uno studente e poi un maestro prendevano la parola e raccontavano, con discorsi o poesie, l’importanza della fondazione del primo Parlamento per la nascita della Repubblica. Dopo questa carrellata patriottica, tutti a casa. Quindi una mezza giornata di festa. C’era chi andava in giro con i genitori a fare un picnic, a mangiare in un ristorante, o a visitare un museo con il padre, come me.
Soltanto a 17 anni ho capito che forse il 23 aprile non era una giornata gloriosa per i bambini del mio paese. Avevo realizzato un breve video con un mio compagno delle superiori grazie ad uno spunto che ci aveva dato un professore di storia. Si trattava di andare nei quartieri popolari, a due passi dal salotto turistico di Istanbul, Taksim. Sto parlando di quartieri come Kasimpasa, Dolapdere, Ferikoy e Kurtulus. Io ed il mio amico abbiamo girato per le officine meccaniche e le strade di questo quartiere per intervistare i lavoratori minorenni, una settimana prima della Festa Nazionale per i Bambini. Con un lavoro di montaggio analogico super casalingo abbiamo messo all’inizio ed alla fine le immagini e la voce della protagonista del video musicale dei Metallica (Turn the Page). La protagonista era una lavoratrice del sesso e la si vedeva al Tribunale mentre parlava della sua vita e diceva che se si fosse trovata di nuovo nelle stesse condizioni avrebbe fatto di nuovo le stesse scelte. Una volta completato questo breve video amatoriale abbiamo avuto pure il coraggio di proiettarlo davanti a quasi tutti gli studenti della scuola e ad una marea di professori.
All’università invece, pur non essendo più un bambino ed iniziando a scrivere le mie prime sciocchezze su un giornale locale, avevo iniziato a conoscere per bene la situazione dei miei connazionali minorenni. Nella Turchia del 2014 le cose sono ulteriormente peggiorate. I numeri parlano da soli; i bambini e le bambine costituiscono quasi il 30% della popolazione totale, il 3% delle bambine viene costretto a sposare un uomo più anziano, circa il 25% dei bambini e delle bambine vive sulla soglia della povertà, circa 2.000 minorenni sono in carcere. Secondo una ricerca realizzata dal sindacato confederale DISK, in Turchia ci sono più di 8 milioni di lavoratori minorenni, cifra aumentata del 50% in questi ultimi dieci anni. E solo nel 2013 sono morti 59 lavoratori minorenni per gli incidenti sul lavoro.
Per un turco bianco di Istanbul cresciuto nei quartieri di Ferikoy e Kurtulus, nel cuore della vecchia Costantinopoli, è stato lento e difficile, ma non impossibile, accorgermi che nel mio quartiere non tutti i bambini vivevano in totale felicità e serenità. Tuttavia, pur essendo cresciuto in questi quartieri fortemente popolati dalle persone di origine armena oppure di fede religiosa ebraica, le tematiche calde che li riguardavano mi risultavano nebulose. Non si parlava del 1915, del 24 aprile (data dei primi arresti tra l’elite armena di Costantinopoli, seguiti da deportazioni e massacri che coinvolsero oltre un milione di persone), delle leggi per confiscare i beni agli armeni, di quello che è successo nel 1934 in Tracia contro gli ebrei, dei cambiamenti legislativi del 1936 per limitare le loro attività commerciali, della legge del 1942 sul reddito per le minoranze e del pogrom d’Istanbul del 1955. Pur essendo cresciuto con Garen, Alen, Kirkor, Serço e pur chiamando zio e zia i nostri vicini Haçik, Hilda, Agop e Sona ho iniziato a farmi certe domande ed avere certe curiosità piuttosto tardi. Per un bambino nato un anno dopo l’ultimo colpo di stato, durante una corsa verso l’ospedale su un furgone dell’esercito nella notte del coprifuoco del Primo Maggio, in una Turchia di armeni ed ebrei convertiti all’Islam, obbligati a cambiare i loro nomi e costretti a vivere con un profilo turco-musulmano, in una Turchia dell’inno nazionale e del giuramento della gioventù letti collettivamente ogni lunedì mattina e venerdì pomeriggio, in una Turchia dei programmi didattici con le materie “Religione” e “Sicurezza Nazionale”, non era facile, o forse non era proprio possibile, capire, studiare, scoprire, indagare sul passato e sul presente. In un paese pieno di sentimenti nazionalistici e patriarcali sistematicamente inseriti nei piani didattici e politici e rafforzati da una cultura militarista, per un turco bianco di Istanbul di una famiglia piccolo borghese era difficile dissipare la nebbia.
Ieri era il 24 aprile, l’anniversario di uno dei dolori più forti che una popolazione possa vivere. Nel secolo in cui sono nato e cresciuto io si continuava a vivere i dolori di questo genere da molte parti e i responsabili di questi reati provavano a riempire i grandi buchi che avevano creato con del fango, cercando di puntare il dito verso un altro caso. La Repubblica di Turchia, nata dalle ceneri di un impero durato circa 700 anni, ha tutt’ora le frontiere chiuse con la sua vicina Armenia. Ieri il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan ha diffuso un comunicato in nove diverse lingue in merito a quello che è successo all’inizio del secolo. Il comunicato inizia con queste parole: “Il 24 aprile, che ha un significato speciale per i nostri cittadini armeni e per tutti gli armeni del mondo, offre un’occasione preziosa per dividere liberamente i pensieri in merito ad una tematica storica. Non si può negare che gli ultimi anni dell’Impero Ottomano siano stati un periodo difficile e doloroso per milioni di cittadini ottomani, armeni, arabi, curdi e turchi, a prescindere dalla loro fede religiosa e provenienza. Un atteggiamento equo e cosciente richiede la comprensione di tutti i dolori senza fare distinzioni di origine etnica e religiosa. Costruire una gerarchia dei dolori, oppure paragonarli tra di loro non avrebbe senso per chi li prova. Come dicevano i nostri antenati: “La fiamma brucia dove la si tocca”. La frase del discorso di Erdogan ripresa dalla maggior parte dei media è questa: “Ci auguriamo che gli armeni che hanno perso la vita all’inizio del ventesimo secolo riposino in pace e facciamo le nostre condoglianze ai loro nipoti”.
Un passo? Un gesto? Una cosa buona? Esaminiamo le reazioni degli addetti ai lavori.
Forse una delle reazioni più importanti e significative viene dal Primo Ministro della Repubblica dell’Armenia, Serj Sarkisyan: “I turchi non sono nostri nemici. Il genocidio armeno è vivo quanto la politica negazionista della Turchia. Crediamo che negare un reato equivalga a continuare a praticarlo. Per evitare i crimini di questo genere nel futuro bisogna riconoscerli e ripudiarli. Non possiamo dimenticare i turchi che all’epoca, rischiando la vita, ci hanno aiutato.”
In qualità di portavoce del Segretario di Stato americano, Jen Psaki ha affermato: “Accogliamo con piacere la dichiarazione del Primo Ministro della Turchia in merito alle sofferenze degli armeni nel 1915”. Sempre dagli USA arriva un’altra breve dichiarazione, stavolta negativa. Secondo Aram Hamparian, attuale direttore del Comitato Nazionale Armeno d’America, “Ankara sta cercando di negare il genocidio in diverse forme. Il Primo Ministro Erdogan con questa dichiarazione cerca di sfuggire alle responsabilità comportate dal genocidio”. Un altro commento a bruciapelo arriva via Twitter da Stefan Füle, Commissario europeo per l’allargamento e la politica europea di vicinato: “Accolgo con piacere la dichiarazione del Primo Ministro Erdogan in merito agli armeni. La riconciliazione è un valore chiave dell’Unione Europea. Mi auguro che seguiranno altri passi con questo spirito”.
Sono arrivate reazioni anche dal mondo non istituzionale. Il giornalista libanese Vahakn Keshishian, che insegna all’Università Americana di Beirut, ha dichiarato: “Il concetto del dolore comune è una versione aggiornata della politica negazionista. In ogni caso sentire il Primo Ministro turco dire qualcosa di diverso da ‘No, non è successo niente’ dà un po’ di speranza. All’epoca la società parlava così e lo stato non diceva nulla. Oggi la società fa passi avanti rispetto allo stato; se quest’ultimo prosegue in questa direzione possiamo ben sperare.” Khatchig Mouradian, direttore della rivista statunitense Armenia Weekly, invece ha parlato così: “Erdogan ha semplicemente detto: ‘Questo non è un genocidio, tutti hanno sofferto. Ormai è giunto il momento di risolvere questo problema. Il vostro popolo non è stato sterminato, ma comunque condoglianze’”.
Adesso facciamo una carrellata di reazioni di persone residenti in Turchia. Artak Şakaryan, un armeno turcologo: “In realtà non è cambiato nulla. Di nuovo ha proposto di riaprire gli archivi e costruire una commissione sulla storia. Fare le condoglianze agli armeni e subito dopo metterli nella stessa barca con le persone morte durante la Prima Guerra Mondiale è stata una mossa intelligente, ma il motivo della morte di quelle persone è diverso. Ovviamente commemoriamo con rispetto le persone morte durante una guerra, ma non possiamo mettere sullo stesso piano le decine di migliaia di persone che hanno perso la vita affogate in mare.” Secondo Orhan Dink, fratello dell’ex direttore armeno-turco del quotidiano Agos, assassinato nel 2007, “E’ un passo importante per la costruzione della democrazia in Turchia rispetto alla storica dichiarazione ‘Ci hanno tradito i loro antenati’. Trovo molto importante la dichiarazione del Primo Ministro. Possiamo definirla tardiva, ma costituisce un primo passo che deve avvicinare pian piano i due popoli verso una strada di normalizzazione”. Aris Nalcı, direttore del canale televisivo IMC Tv: “Si vedrà nei prossimi giorni se è un gesto onesto oppure una mossa strategica un anno prima del centenario del 1915. Proporre una commissione di indagini storiche non è una soluzione, vuol dire passare la palla agli storici. In precedenza la parte turca non aveva voluto condividere i suoi documenti, così la parte armena aveva abbandonato il tavolo.”
Il quotidiano nazionale di centro sinistra, Cumhuriyet ha usato questo titolo: “Condoglianze per il novantanovesimo anniversario”, il quotidiano nazionale Milliyet, tendenzialmente vicino al governo ha scritto “Condoglianze in nove lingue”, il quotidiano nazionale Hurriyet: “Messaggio storico in nove lingue”, il quotidiano nazionale SoL, organo di stampa del Partito Comunista di Turchia: “Lo spettacolo di Erdogan per il 24 aprile”, Akit, quotidiano nazionale del movimento fondamentalista: “La favola del genocidio”, Yeni Safak, un altro quotidiano nazionale del movimento fondamentalista: “Abbiamo un dolore in comune”, Yeni Cag, quotidiano nazionale del movimento nazionalista: “Un secondo colpo all’unità nazionale. Dopo l’apertura verso i curdi, adesso l’apertura verso gli armeni”.
Anche dal mondo politico sono arrivati reazioni di ogni tipo. Il segretario generale del Partito Laburista, Dogu Perinçek, detenuto per il processo Ergenekon e liberato da poco: “Se a fare questa dichiarazione fosse stato il Primo Ministro avrei detto che si era inchinato. Solamente il portavoce dell’imperialismo avrebbe potuto fare questa dichiarazione. In un momento in cui l’unità territoriale del paese è a rischio, Erdogan non difende né la patria, né l’indipendenza e nemmeno l’egemonia”. Garo Palyan, membro del comitato centrale amministrativo del nuovo partito HDP(Partito democratico dei popoli); “Questa dichiarazione dimostra che lo stato non può più portare avanti una politica negazionista. Nel testo si notano ancora le solite proposte, come quella della commissione per le indagini storiche. E’ comunque un primo passo per comprendere le sofferenze. Si parla del fatto che le persone siano state obbligate ad abbandonare il territorio, invece che usare la solita formula del ‘cosiddetto genocidio’. E’ importante continuare in quest’ottica per poter costruire un ponte con gli armeni”.
In effetti a prima vista la dichiarazione di Erdogan sembra un passo avanti e un gesto positivo compiuto per la prima volta da un esponente di così alto livello; per inquadrarla correttamente bisogna però fare un’analisi trasversale, altrimenti la scienza della politica non sarebbe molto diversa dalla promozione pubblicitaria di un nuovo prodotto introdotto nel mercato. Erdogan è al potere da circa dodici anni ed è la prima volta che compie un gesto del genere. Dopo dodici anni di attesa e proprio un anno prima dell’attesissimo anniversario del 1915, una simile tempistica lascia leggermente perplessi. Il governo armeno e le organizzazioni armene della diaspora si stanno preparando da tempo al 2015, progettando una serie di azioni diplomatiche, legali, politiche e culturali. Poche ore dopo la dichiarazione, in risposta alle domande dei giornalisti, Erdogan ha detto: “Senza risolvere il problema del Nagorno Karabakh (zona da anni di grande conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaijan), non possiamo avere un rapporto normale con gli armeni”. Nel 2011 durante un programma televisivo (canale NTV) lamentandosi degli attacchi nei suoi confronti da parte dei giornalisti e scrittori che indagavano sul suo passato Erdogan esclamò: “Scusatemi, ma mi hanno dato dell’ebreo, dell’armeno e del greco. Ora basta!”.
Concludo riportando un pezzo dell’ultimo articolo del giornalista Hakan Aksay pubblicato sul sito di notizie T24: “Sono sempre Erdogan e i suoi uomini a sostenere le forze degli islamici radicali per distruggere gli equilibri che non si riescono a cambiare in Siria. Sono sempre loro ad aver iniziato la fase della pace con i curdi, ma senza compiere dei passi effettivi e qualche volta cercando di colpirli attraverso le altre forze curde esterne. Sono sempre loro che vogliono controllare i media, la giustizia, il Parlamento, Twitter, Youtube e la manifestazione del Primo Maggio. Per fare la pace con altri popoli bisogna uscire dal circolo vizioso della religione-nazionalismo e credere nella democrazia e nei diritti umani. Il potere che non fa questo, che cambia sempre la sua posizione e reagisce basandosi sui calcoli opportunistici, ha un futuro discutibile. Oggi è il 24 aprile: armeni, turchi, curdi, arabi, dovremmo tutti quanti condividere le sofferenze del passato. Tutti insieme parlando, discutendo, indagando, scrivendo, disegnando, riempiendo le strade e le sale, cantando e piangendo. Si dovrebbero compiere alcuni passi attesi da tempo per stare insieme, uno accanto all’altro e per rimuovere la nebbia. I responsabili dell’omicidio di Hrant Dink devono essere trovati e vanno scoperti anche quelli del massacro di Uludere. E’ la fiducia a fare da cemento per la pace e l’amicizia tra i popoli. La fiducia si ottiene in questo modo, non con la furbizia e le finte.”