Da Helodie Fazzalari
Pochi giorni fa ho avuto il piacere di conoscere Armin Quilaqueo, un uomo di origini Mapuche, professore di storia, scienze sociali e avvocato. Armin mi ha accolta nel suo studio e mi ha permesso di fargli qualche domanda in qualità di membro operante all’interno della Consulta indigena della Convenzione 169 dell’OIT (Organización Internacional del Trabajo). Ciò che mi ha incuriosita di Armin e del suo lavoro e l’onda di positività sulla quale lui e diversi suoi colleghi di origine indigna, operano per portare a conoscenza delle comunità tutti i diritti che gli spettano. In una società dove per anni, e in alcuni casi ancora oggi, la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno, degli individui di origine indigena, in questo caso Mapuche, continuano ad operare per la loro comunità attraverso una rete di informazione e comunicazione, in qualità di consiglieri.
Cosa si sta facendo a livello legale per far si che le comunità e le associazioni indigene vengano messe a conoscenza di quali sono i loro diritti? E cosa si sta facendo per far valere i loro diritti?
“Io non ho vissuto in comunità, non so parlare il Mapudungun, tanto meno la mia famiglia è particolarmente inserita nella tradizione, e questo per diversi fattori storici. La mia famiglia è andata via dalla comunità negli anni 70 e negli anni 80 il nostro terreno fu diviso in terreni singoli. Ma con gli anni una persona sente il desiderio di riscoprire chi è nel profondo, da dove proviene e quali sono le sue origini. Ed è quello che ho fatto io. Quello che sta succedendo negli ultimi tempi ha molto a che vedere con l’evoluzione che c’è stata nel mondo indigeno. Il mondo indigeno inizia a rivitalizzarsi a partire dagli anni 90, quando termina il periodo della dittatura nel quale molte minoranze furono rese ‘invisibili’. La logica di quel regime militare fu: l’assimilazione. All’interno di questo processo, per non essere assimilati completamente era molto importante possedere un titolo, o un documento che attestava di essere proprietari di un terreno o di un suolo. Di conseguenza all’interno delle comunità ognuno si prese la propria parte di terreno. Questo certamente è stato un fattore che ha allontanato molti indigeni dalle loro tradizioni, come quella di possedere un terreno comunitario. E questo generò anche dei conflitti interni, c’erano famiglie che si facevano la guerra. Mio padre, ad esempio, non riuscì ad ottenere nessuna parte di territorio e ricevette un piccolo indennizzo da parte dello stato, in quanto era fuori dalla comunità”.
“L’ultima Convenzione prima della Convenzione 169, risaliva al 1809, dunque aveva già fatto il suo tempo. Nel 1993 il governo cileno decide di approvare la Convenzione 168, ma in realtà prima che questo avvenga passano 17 anni perché c’erano delle opposizioni interne. La Convenzione 168 viene approvata nel 2008 ed entra in vigore nel 2009. Gia nel 2007 avevamo avuto la Dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto delle popolazioni indigene, che in realtà è molto più avanzata rispetto alla Convenzione 169, ma resta comunque una dichiarazione.
Lo stato cileno ha una formazione istituzionale che non da spazio alla partecipazione, ed io credo che questa sia una delle cause per le quali oggi ci ritroviamo in questa situazione. Dunque la gente opta per altre forme di manifestazione.
Con questa nuova Convenzione si apre una nuova realtà, sia nazionale che internazionale. Uno degli elementi era l’istituzione di una Consulta popolare. Lo stato cileno non aveva alcuna esperienza su questo e dunque come diciamo noi : ‘la Consulta venne interpretata alla cilena’. La Consulta ha dei parametri standard internazionali che devono essere rispettati, mentre qui la Consulta consisteva solo nell’informare i cittadini. Questa situazione generò un conflitto e molte domande su cosa fosse la Consulta e in cosa consistesse il suo ruolo. Io mi inserisco proprio in questa situazione. La società cilena non aveva esperienza di ‘partecipazione’, e quello che ho fatto io in molti casi e stato proprio ‘informare’”.
Oggi, quali sono i diritti per i quali i Mapuche si battono maggiormente, oltre alla rivendicazione della terra? E cos’è cambiato rispetto al passato?
“A partire dagli anni 90, soprattutto al sud i popoli indigeni iniziano a reclamare dei loro diritti principalmente per il tema della terra. Oggi esistono due realtà: quella rurale e quella urbana. Una grande percentuale del mondo Mapuche abita in città. Questo spesso è un problema, perché che territorio dovrei rivendicare io a Santiago?. Una cosa è quando abiti in comunità e hai delle ragioni per rivendicare il tuo terreno. In città si inizia a cercare altre forme di rivendicazione: c’è il tema della lingua, molti lottano affinché venga riconosciuta la lingua indigena e affinché i bambini più piccoli abbiano la possibilità di impararla a scuola, con tutti i suoi simbolismi.
Un altro tema che è stato riconosciuto a livello internazionale è quello della libera autodeterminazione dei popoli. Per questo tema i popoli indigeni hanno fatto una lotta interna che non si è mai interrotta, è stata continua nel tempo. Dunque in principio i popoli indigeni hanno subito un periodo di assimilazione da parte dello stato, specialmente sul tema dell’educazione. Di seguito negli anni della dittatura c’è stato un periodo di ‘invisibilizzazione’. E adesso siamo in una fase di rinascita. Questo è accaduto proprio perché la gente ha iniziato a comprendere il concetto di ‘autodeterminazione’.
Oggi i popoli indigeni lottano per una rivendicazione politica. Chiedono di poter partecipare, di poter prendere decisioni. In passato quella che predominava era la rivendicazione culturale delle proprie tradizioni, della lingua, il riconoscimento dell’anno nuovo Mapuche ecc. Oggi le popolazioni indigene rivendicano i loro diritti politici, e questo accade anche grazie all’informazione e alla comprensione di quali sono i loro diritti. Anche io mi batto per questa lotta, perché credo che il resto sia solo folclore”.
Come si svilupperà questo processo di ‘rinascita’?
“Non lo so, perché l’ambiente indigeno è molto variegato, ci sono molte visoni della stessa realtà. Nella sua tesi, un giovane cileno fece un’osservazione molto importante: Le popolazioni indigene hanno tante diverse opinioni, come anche la società cilena osserva a stessa cosa da diversi punti di vista. La differenza però è che la società cilena ha dei mezzi, come ad esempio il Parlamento dove far confluire ed analizzare tutte le varie opinioni, mentre la società indigena non dispone di questi strumenti, non ha istituzioni riconosciute.
Per fare un esempio: Io non so se ho il diritto di essere assistito dalla medicina alternativa. Quando questo punto viene trattato all’interno della Convenzione ed io scopro di aver questo diritto, questo diventa reale. Nel mondo indigeno non esistono diritti scritti. Dunque venir a conoscenza dei miei diritti perché sono presenti all’interno della Convenzione è un passaggio da un diritto di tipo indigeno ad un diritto scritto di tipo occidentale.E’ importante istituire uno spazio di comunicazione nel quale far conoscere i propri diritti alla comunità Mapuche. All’interno di questo spazio si va a formare un processo di interiorizzazione di questi diritti, perché non è possibile istituire delle lezioni per insegnare il diritto. Oggigiorno siamo in questo processo costituente, e non tutte le comunità indigene accettano di farne parte. Alcuni sostengono si tratti di una Costituzione che interesserà i diritti del popolo cileno e non delle comunità indigene. dunque ci sono opinioni contrastanti.
Nel mondo indigeno non c’è un presidente, un segretario o un tesoriere, come nel mondo occidentale. Quando non si riesce a comprendere come è organizzato l’altro, come pensa l’altro, sarà assunta sempre una logica che non corrisponderà mai con l’identità dell’altro. E’ qui che si genera il conflitto. Da parte del mondo indigeno a questo punto la domanda che sorge è: perché e per chi dovrei partecipare alla stesura di una costituzione che non mi riconosce?”
“Sento che quello che è cambiato negli ultimi tempi, e che ha del positivo, è che la gente si è esercitata a vedere e riconoscere i propri diritti. Oggi la gente sa per cosa lotta e chi è. Una delle cose che abbiamo detto alla gente in uno dei primi incontri nei quali abbiamo iniziato a parlare di Consulta popolare è stata: voi potete decidere per voi stessi e questa decisione deve essere autonoma e indipendente. Abbiamo invitato la comunità a dire al rappresentate dello stato ciò che davvero pensava. Questo è stato un atto simbolico di autonomia molto importante. Penso che questo dovrebbe radicalizzarsi con il tempo e diventare un costume vero e proprio. Ci sono decisioni politiche che sono diffidi da prendere e per questa ragione il mondo indigeno deve avere la possibilità di essere assessorato nella stessa condizione in cui lo è lo stato cileno. Se attraverso l’esecutivo lo stato prende una decisone che ha effetti sul mondo indigeno, la comunità indigena deve essere messa a conoscenza di questo, gli deve essere chiesta la sua opinione e deve possedere le capacità per comprendere ciò che le si sta domandando”.