Ieri, in un Teatro Erba gremito, si è aperto il cantiere progettuale delle Sardine torinesi.
Riportiamo di seguito alcuni passaggi più significativi degli interventi fatti:
Mattia Angeleri (Portavoce Sardine Torino):
“Tutti ci chiedono che cosa vogliamo fare, ovunque ce lo chiedono. Vogliamo approfondire quelli che sono i problemi e cercare di comprendere insieme quali possono essere delle alternative e delle soluzioni a questi problemi, soluzioni che naturalmente devono essere condivise da una platea più ampia possibile. Questo è anche il motivo per cui oggi abbiamo invitato questi ospiti, per cominciare a parlare di queste problematiche.”
Alessandro Rocca (Sardine Torino) ha doverosamente ricordato Giulio Regeni.
Federico Bottino (Esperto di strategie di comunicazione):
“Penso che non si possa dunque parlare di democrazia, di politica, senza parlare di dove viaggia l’informazione. Noi viviamo in un mondo in cui il 90% delle informazioni viaggia attraverso canali digitali che sono proprietà di aziende con la sede legale in California – in Europa ce l’hanno in Irlanda- che non hanno a cuore il destino dell’umanità, i diritti, la lotta all’ingiustizia, ma alla base (cosa giuridicamente lecita) hanno un’unica cosa: il profitto. Rimarreste davvero stupiti nel vedere il grande potere delle Lobby quando si va a parlare di un sistema democratico in cui non ci sono finanziamenti pubblici, come da qualche anno è il nostro.
Quando i candidati della Lega fanno uscire un contenuto ad altissimo livello di polarizzazione sapendo che molto di noi s’indigneranno, perderanno la testa e lo rimbalzeranno, stanno facendo esattamente il gioco della distribuzione di un’informazione su base quantitativa. Se noi non capiamo questo processo saremo costretti a rincorrere un’agenda elettorale fatta da persone che sanno che facendoci incazzare non facciamo altro che parlare di loro facendoci dettare l’agenda elettorale”.
Mauro Berruto (ex CT nazionale italiana di pallavolo, giornalista, formatore per il mondo delle imprese):
“Nulla più dello sport mi ha insegnato la bellezza delle differenze e come quelle differenze possono diventare la ricchezza e il punto di forza di una squadra. Torino non è solo una città olimpica – ce ne sono solo 40 nel mondo -, Torino è una città che ha immaginato molte cose per prima, come la costruzione di questo paese nella sua unità, ha una serie di primati nel mondo dell’impresa, della cultura, del sociale. Torino è sempre stata una città di avanguardia, un luogo che ha realizzato il vero processo non d’integrazione, ma di inclusione, che è una cosa diversa.
A Borgo Dora, dove tutto il mondo è rappresentato, la ricchezza delle differenze e la ricchezza delle contaminazioni stanno generando e torneranno a generare bellezza. Perché è sempre successo così, nonostante ci sia sempre stato qualcuno che ha tentato di impedirlo.
La cosa più importante che possiamo fare è fare politica, nel senso etimologico del termine, prendendoci cura della nostra città.
Partiamo da Torino, partiamo dal fallimento di una città amministrata come se l’incompetenza fosse una virtù.
Basta con questo modello di politica che mette un cognome all’interno dei propri simboli. Non voglio riconoscermi in un cognome, voglio riconoscermi nei valori che contraddistinguono un modo di stare al mondo e che si fondano sulla considerazione fondamentale che Norberto Bobbio aveva identificato con chiarezza 25 anni fa, definendo che cosa distingue la sinistra dalla destra: ovvero quel diverso atteggiamento che hanno gli uomini di fronte all’ideale di uguaglianza. La destra, perché le è funzionale, desidera la diseguaglianza, la sinistra vuole annullare le differenze di classe, di genere, di razza, di orientamento sessuale. Punto.
A quest’ultima frase aggiungo: annullare non solo le differenze di orientamento sessuale, ma anche le differenze di identità di genere”.
Karima Moual (Docente dell’università di Agadir, Docente all’Università del Piemonte Orientale, firma ed editorialista de La Stampa):
“Oggi sono qui per parlare di diversità, una parola grande e complessa che include tante tematiche, ma cercherò di essere breve toccando almeno una di quelle che oggi è al centro della battaglia politica e sociale: l’immigrazione. Diversità per eccellenza e oggetto ormai del contendere. Eppure se penso alla diversità, penso a tutti noi, alla pluralità e alla ricchezza che ogni singolo essere umano porta con sé.
Un’identità è qualcosa che dà e riceve, è una casa aperta, mi rassicura molto pensare a queste parole. Non è necessario essere figli di migranti per rappresentare la diversità.
Il racconto della mia famiglia e mio come persone di origine straniera in Italia è molto lungo, ma è una fotografia fedele della storia recente del nostro paese, un racconto dove c’è sofferenza, ma anche tanta bellezza. La novità in questa storia è l’involuzione che velocemente sta imbruttendo una società, quella italiana, che non lo merita. Ed è ora di chiedersi perché siamo arrivati a questo. Questi cambiamenti mi hanno fatto capire che dobbiamo comunque farci trovare in piedi.
La verità è che il nostro paese è maledettamente fermo su vari fronti e fra questi c’è il cantiere immigrazione che continua ad essere trattato e raccontato solo come un’emergenza di sbarchi e fantomatiche invasioni, quando invece alla parola immigrazione dovremmo certamente trovare una politica dignitosa, nei confronti di quelle persone che scappano da guerra e fame, mettendo in agenda una parola che ormai non si usa più: immigrazione legale, un viaggio legale e sicuro per coloro che hanno l’unica colpa di essere nati nel posto sbagliato.
Il problema del nostro paese è che se sei un immigrato, nonostante la tua storia di emancipazione e integrazione e quel foglio di carta che attesta la tua nuova cittadinanza, sei e rimarrai percepito e vissuto solo come un immigrato.
C’è una narrazione che va de-costruita per lasciare il posto al racconto della complessità, della diversità e su questo l’informazione ha un grande lavoro da fare, ma non senza politiche che guardino alla realtà e più che alla percezione, che vanno intraprese con urgenza, per tamponare quest’ondata di odio e ignoranza.
Politiche che riconoscano e facilitino i processi di integrazione, con l’acquisizione della cittadinanza e l’inserimento nel tessuto sociale italiano attraverso programmi d’integrazione veri.”
Gustavo Zagrebelsky (Docente di Diritto Costituzionale all’Università di Torino):
“(In riferimento all’episodio d’intolleranza razziale di Mondovì avvenuto il 25 gennaio, dove è stato scritto juden hier – qui c’è un ebreo – sulla porta del figlio di Lidia Beccaria Rolfi, deportata a Ravensbruck nel ’44 n.d.r.) Perché gli sbandati (usiamo questa categoria) si ritengono autorizzati a certi gesti, anche se loro sono degli irresponsabili? Perché si è ormai creato un clima in cui queste cose sono tutto sommato diffuse e persino accettate. E quindi ci dobbiamo preoccupare non tanto di quel soggetto, ma di chi siamo noi tutti insieme, che cosa siamo diventati.
(In riferimento al gesto del citofonare al presunto spacciatore n.d.r.). Che cosa è andato a fare questo leader politico: quello che nella notte dei cristalli, in Germania (nella Germania nazista n.d.r.), dei cittadini comuni (questo non è un cittadino comune, cosa ancora più grave) erano stati autorizzati e incitati a fare: in quella notte tragica sono andati nei luoghi dove gli ebrei lavoravano e abitavano per stanarli. C’è una parola tedesca che è stata coniata in quella circostanza, che significa per l’appunto stanare (o braccare n.d.r.): aufspüren. Vuol dire andare nel luogo dove c’è l’animale selvatico e tirarlo fuori.
Il compito delle Sardine dovrebbe essere quello di far scoprire in tutti la Sardina nascosta. Ora io mi auguro che colui o coloro che hanno scritto quelle parole a Mondovì siano anche loro in fondo un po’ Sardine, ma non lo sanno. Il nostro compito è quello di renderle consapevoli. E quindi stabilire dei contatti, un dialogo, un dialogo possibile. Il colloquio personale riesce a far cambiare le posizioni.
Non diamo per perdute le persone che oggi ci appaiono così lontane da questo nostro modo di concepire la vita di relazione, un modo sostanzialmente aperto, amichevole, dialogico, anche dialettico, perché non è detto che si debba andare tutti d’accordo, ma che comunque implica che i rapporti non siano basati sull’esclusione e sulla violenza.
Siamo ottimisti, vediamo nella natura umana un germe che consente alle Sardine di fare, io mi auguro, un lungo cammino.
Non c’è democrazia che possa esistere in una società malata, in una società dove esistano troppe disuguaglianze, in una società dove esista violenza nel linguaggio e nei comportamenti, dove non esista quella curiosità di cui parlavamo prima, di uno verso gli altri. Potete immaginare una democrazia in una società schiavista? No. Una democrazia ha bisogno di relazioni che chiamiamo democratiche nelle quali l’uno riconosce la dignità dell’altro, in cui il mondo femminile è promosso allo stesso modo del mondo maschile. Noi abbiamo prima di tutto bisogno di una società democratica.
Il salvinismo è una manifestazione democratica, perché si basa sul consenso; naturalmente c’è consenso e consenso e la democrazia può essere orientata a produrre risultati di un tipo o di un altro. Cioè si può usare la democrazia contro la democrazia. La politica e le istituzioni (il sovra-strato della nostra esistenza) possono apparire democratiche, ma quando poi si ritorcono nella sostanza della nostra vita di relazione, possono manifestare dei tratti anti-democratici, cioè forme democratiche, ma contenuti anti-democratici. Del resto le democrazie che si suicidano con strumenti democratici sono esperienze che abbiamo ben conosciuto e che sono in corso in certi paesi dell’ex blocco comunista in Europa.
Questo per ribadire l’idea che noi potremmo costruire qualcosa di nuovo non guardando direttamente ed esclusivamente il sovra-strato, cioè il mondo politico, il mondo dei partiti, le istituzioni politiche.
Potremo sperare in qualcosa di meglio se bonifichiamo la base sociale. Questo penso che debba essere il nostro impegno.
Significa avere innanzitutto coraggio, significa contrastare, come ha detto Mario Berruto nel suo intervento, contrastare i cialtroni, dovunque si trovino e in qualunque momento noi li incontriamo. Questo è un compito che ci riguarda direttamente. Ad esempio quando per strada vediamo persone di colore maltrattate da nostri concittadini e noi stiamo in silenzio, stiamo a guardare, abbiamo paura d’intervenire. Una piccola paura, magari di un pugno, un piccolo pugno, di fronte ad una grave degradazione dei rapporti. Tutte le nostre relazioni possono essere oggetto di valutazione dal punto di vista della creazione, o del mantenimento di una rete civile di rapporti, basata sul rispetto.
Stare zitti, subire, stare a guardare, significa convalidare, essere complici di ciò che succede.”
Luca Rolandi (Giornalista, Insegnante di storia del giornalismo, direttore di N – Enne, rivista del Polo del ‘900)
“Mi pare che questi quattro elementi sui quali credo di poter accennare una riflessione siano fondamentali: il primo è leggere con onestà la realtà, ovvero fare i conti con la realtà pervasiva che la tecnologia, il mondo virtuale, che ormai è mondo reale – i due sono interconnessi – ha nella dimensione delle relazioni fra persone. Quindi cercare di capire come governare, cercando di leggere onestamente la realtà, questo fenomeno; il secondo elemento, che è legato fortemente alla dimensione completamente nuova nella quale ci troviamo ad operare, è un atteggiamento, un verbo che è quello che noi stiamo dimenticando, che è la necessità di ascoltare, di ascoltarci. L’esempio di questo pomeriggio è un esempio molto positivo. Abbiamo avuto la pazienza di ascoltare per ore delle persone che avevano qualcosa da dire, un contributo da dare, non delle risposte univoche, ma dei contenuti sui quali continuare a ragionare per trovare delle risposte comuni, collettive, non individuali, e non l’approccio dell’individualismo, dell’iper-individualismo che vuole invece, paradossalmente, il mondo populista. Quindi l’ascoltare il disagio del singolo, delle comunità, dei giovani che si sentono estromessi da una visione di futuro, in un paese dove manca il dialogo inter-generazionale. Nel’ascolto e nel dialogo si scopre l’altro e quindi culture, religioni diverse dalla nostra. Terzo elemento: affrontare la sfida delle disuguaglianze. La disuguaglianza è forse la dimensione più tragica del nostro tempo, del nostro mondo e nella nostra dimensione nazionale. Più si allarga la disparità e più si allarga lo iato tra persone ricchissime e persone poverissime, e più le risposte rabbiose e paurose saranno accolte, molto più premianti rispetto a quanto noi pensiamo sia possibile. Se 2153 soggetti detengono una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, è evidente che il sistema della disuguaglianza non va più affrontato con le categorie del ‘900, ma va riequilibrato attraverso una redistribuzione e un’economia che deve cambiare determinati paradigmi. Difficilissimo, complesso, ma necessario. Quarto elemento: comunità e municipalità. E’ indispensabile, per creare un soggetto politico, partire dal territorio, dalle comunità di riferimento. Cioè partire dai contesti che noi conosciamo, che abitiamo, per i quali non possiamo restare indifferenti. Dobbiamo avere il coraggio di uscire, prenderci le nostre responsabilità, magari qualche sconfitta, ma produrre delle narrazioni differenti da quelle che non condividiamo. Il luogo di passaggio dal’io al noi avviene all’interno delle comunità di riferimento.”
Sara Diena (Sardina Torinese, attivista di Fridays For Future):
“Come uomini non possiamo custodire la verità, ma c’è una categoria di persone, su questo pianeta, che può custodire delle verità e questi sono gli scienziati.
Sono qui per riportare dati studiati e calcolati più volte da moltissimi scienziati. Anche noi come attivisti abbiamo imparato a leggere, a capire grafici, statistiche, dati, un po’ di chimica. Anche con difficoltà, per poter essere appunto la voce della comunità scientifica.
Siamo riusciti a capire che quello per cui combattiamo non è solamente a favore dell’attenzione per il clima, come molti dicono, ma per citare Chico Menzez, la lotta ambientale, senza lotta sociale è solo giardinaggio. Dopo aver ascoltato climatologi, biologi, chimici, abbiamo deciso di seguire anche ciò che dicono sociologi e antropologi e abbiamo capito qual era e qual è ancora adesso il nostro obiettivo comune, il nostro vero nemico: quella che possiamo definire ingiustizia climatica che si declina in diverse forme. La prima è l’ingiustizia territoriale, a causa della quale delle popolazioni sono costrette ad esodi forzati per effetto del cambiamento climatico. La privazione di un diritto fondamentale, quello di abitare la propria terra, è a mio parere una cosa sconvolgente.
La Banca Mondiale ha previsto che entro il 2050 ci saranno 143 milioni di profughi ambientali provenienti da tre macro-aree densamente popolate del pianeta: l’Africa sub-sahariana, l’America del Sud, e la zona che interessa l’India. Noi adesso facciamo politica contro qualche barcone, mentre quello che ci aspetta sono centinaia di milioni di persone che dovranno scappare dalla propria casa e dal proprio territorio.
Si stanno privando le future generazioni delle risorse che sarebbero a loro destinate. Un chiaro esempio di questa ingiustizia è rappresentato dall’Earth overshot day, ovvero il giorno nel quale l’intera umanità consuma interamente le risorse che il pianeta ha prodotto durante quell’anno: quest’anno l’overshoot day è stato il 29 luglio. Noi ci siamo comportati come se avessimo a disposizione una terra e mezza. Tutto quello che consumiamo in più lo stiamo sottraendo alle future generazioni, ai nostri figli, ai nostri nipoti e chi verrà dopo di loro.
Un altro tipo di ingiustizia è l’ingiustizia sociale, come da sempre nella storia. Non l’ho vissuta, ma l’ho studiata: quando ci si trova in una situazione di emergenza, le azioni che vengono intraprese a causa di una crisi, tendenzialmente sono a discapito dei poveri . I paesi e le popolazioni più povere sono tendenzialmente quelli meno responsabili del cambiamento climatico, ma sfortunatamente ne subiscono le peggiori conseguenze. Questo è deplorevole.
Da un anno a questa parte, in tutto il mondo, con pioggia, neve, sole cocente, ultimamente anche aria irrespirabile, un miliardo di attivisti scende in piazza e alza la voce, rivendicando ciò che a noi è più caro: ovvero il diritto alla vita e il diritto ad una vita dignitosa per tutti.
L’essere Sardina e Attivista di FFF trova nel mio pensiero un ragionamento comune: la necessità di scendere in piazza, di alzare la voce, di esserci fisicamente, come persone in carne ed ossa, chiedendo a chi detiene il potere di cambiare le cose.”