Ci sono storie che vanno raccontate ovunque, in tante lingue e in molti modi. Ci sono storie che prendono forma in una piazzetta, giocando con il teatro. Ci sono storie di donne e uomini che hanno cominciato a cambiare il mondo e non hanno più smesso. Un racconto.
La strada che costeggiava la vecchia ferrovia a binario unico portandosi dietro cespugli di ginestre, in contrasto con un mare che non ammetteva repliche tanta era la bellezza, a un certo punto svoltava e iniziava a salire. I tornanti allontanavano e mettevano distanza da quello che rappresentava a suo modo la modernità. Era questo un nucleo abitativo di case sorte un po’ a casaccio, strade senza numerazione, un supermercato, villette costruite direttamente sulla spiaggia. Per sottrarsi alla vista di abusi edilizi e soprusi, a un certo punto la strada lasciava che una parte del nastro d’asfalto continuasse per conto suo diventando strada ionica e svoltava, arrampicandosi su colline di granito: pascoli e olivi. Sette chilometri di leggerezza lasciandosi alle spalle tutto quello che sarebbe successo “in marina”.
C’era una volta un piccolo paese, case antiche e qualche palazzo nobiliare dismesso, vicoli stretti. Gli abitanti avevano deciso di non scendere ad abitare in marina ma rimanere nell’antico borgo. Fra i due nuclei abitativi nacque una rivalità. Il borgo, sinonimo di arretratezza, si presentava sonnacchioso, pronto ad accettarne la sconfitta; sulla piazza principale, rubava la scena il municipio con un grande albero che troneggiava. Piccole botteghe di alimentari e due bar sembravano sparire. Ma non era quello il posto dove si ritrovava un gruppo di ragazzi alla ricerca di intimità, un luogo adatto ad accogliere confidenze e sogni. C’era un altro spazio poco più avanti, un’altra piazzetta eletta fin da subito quartiere generale. Discussioni infinite, non originali, vertevano sul paese che sempre di più andava spopolandosi. Eppure c’era stato un tempo che: “Ti ricordi”? i vicoli erano pieni di voci e di attività. “Che fare?” Ce ne andiamo anche noi al nord? O all’estero? Oppure smettiamo di lamentarci, disse Mimì che prese per gli stracci Giovanni, Cosimo, Domenico, Caterina, Annamaria e li scosse: “Facciamo un teatro, che ci vuole? Scriviamo un testo teatrale e facciamo una festa per ricordare come eravamo una volta, con i mestieri e le tradizioni”. Si divisero i compiti: chi avrebbe cercato nei bauli i costumi, chi attrezzi di lavoro, chi avrebbe convinto le persone a imparare la parte e a mettersi in gioco. Per giorni, lavorarono tutti e portarono in paese un movimento che da tempo non si sentiva. Abituati a scendere in piazza con il vestito buono solo durante la festa dei Santi Cosma e Damiano, quella partecipazione dei paesani al teatro fu una vera rivoluzione.
Il giorno della rappresentazione dei “quadri”, così’ chiamarono le scene agresti, fu un vero successo tanto che, a gran richiamo, la domenica successiva dovettero ripeterla. Ora, tutto quell’entusiasmo non poteva essere archiviato e quando si ritrovarono erano carichi di voglia di fare. Certo la situazione non era cambiata, il paese si stava spopolando lasciando case vuote. Alcune difficilmente avrebbero rivisto i proprietari emigrati in Argentina. L’idea balenò subito: perché non chiedere a questi emigrati di concedere l’uso delle abitazioni a chi ne avrebbe avuto cura e le avrebbe riportate in vita? Case che avrebbero potuto essere affittate a turisti in cerca di pace e, perché no?, anche a migranti, come le persone che erano sbarcate sulla spiaggia e che avevano bisogno di trovare riparo.
Detto e fatto: alle prime risposte positive degli emigrati oltre oceano, il gruppetto di amici si mise a ripulire le case imbiancandole, sistemandole, strappando rovi ed erbacce che si erano impadronite dei cortili.
L’energia incanalata aveva tuttavia bisogno di una cosa: un’associazione che raggruppasse tutti. Per giorni, i ragazzi discussero del nome: la parola Futuro tornava e ritornava, del resto era quello al quale tutti guardavano, la possibilità di costruire un futuro senza dover fuggire. Una “Città Futura”. Le basi c’erano, anche lo statuto. Mancava una sede. Lo sguardo, dal luogo in cui erano seduti, accarezzava un antico palazzo che sembrava perfetto. Il proprietario da anni viveva a Napoli. Bisognava andare, affrontare il viaggio, e convincerlo. Le parole non mancavano e come un fiume in piena travolsero tutto finché: “si si eh vabbene”, il proprietario concesse l’uso. Quando il grande portone del palazzo si aprì e un imponente scalone polveroso si presentò loro, i giovani ebbero un tuffo al cuore. Ma fu quando dal primo piano si affacciarono sul piccolo terrazzo e videro il mare e la strada che saliva a tornanti che il gruppo di amici ebbe la sicurezza di aver realizzato un sogno.
Quell’estate, un veliero era approdato sulla spiaggia in marina; i ragazzi erano corsi per soccorrere i migranti e subito li avevano portati su, nel paese vecchio dove con calma li avrebbero potuti accudire. A chi chiedeva loro che cosa significava questa novità, pronti rispondevano: “Non siamo noi, è stato un caso, è stato il vento che ha spinto questo veliero fino li”. Sempre quell’estate, da quelle parti era passato un prete svizzero che si occupava della Caritas; molto curioso, si era appassionato a quel gruppo di ragazzi volenterosi ma anche un po’ bizzarri per il loro modo di procedere. L’accordo con i vari proprietari delle case non prevedeva contratti scritti, tutto si reggeva sulla parola. Il prete tornato in Svizzera aveva raccolto una certa sommetta e l’aveva inviata alla neo associazione perché potesse coprire le prime spese di ristrutturazione e accoglienza per quei migranti piovuti dal cielo. Anche dall’estero, dall’Argentina e dal Canada, arrivarono aiuti economici, proprio da quegli emigrati che avevano prestato le loro case in comodato gratuito. Anche da lontano, una cosa l’avevano capita: c’era gente che aveva bisogno di un tetto sulla testa. Avevano tratto le conseguenze: sicuro avevano anche bisogno di scaldarsi e di mangiare, detto fatto il bonifico postale era stato spedito. Un incoraggiamento per il gruppetto di amici che iniziarono a pensare di ingrandirsi. Nella piazzetta dove erano soliti ritrovarsi c’era un rudere, una vecchia abitazione di una donna che era solita trascinare la carretta per vendere indumenti: si chiamava Rosa. Al proprietario del rudere non sembrò vero che ci fosse qualcuno interessato: l’accordo fu fatto, sempre con una stretta di mano. Tuttavia questa volta non bastava imbiancare e togliere rovi, i lavori che andavano fatti erano decisamente più importanti. Qualcuno propose di chiedere un prestito ad una banca che si chiamava Etica e si diceva che fornisse prestiti anche a chi come loro aveva tante idee e poche garanzie. L’esito fu al di sopra di ogni aspettativa e decisero di farne una taverna, un piccolo ristorante. Ai permessi avrebbero pensato dopo. Intanto il paese cominciava a guardare a quel gruppetto con sempre maggiore attenzione. “Ci siamo” disse un giorno Mimi a Giovanni, Cosimo, Domenico, Tina, Annamaria. “È arrivata l’ora di fare l’assalto al Palazzo d’Inverno, di presentarci per le amministrative”. Certo, non erano filo russi ma aderenti a Democrazia Proletaria sì. I parenti stretti furono i primi a scoraggiarli. Va bene che qualche cosa di buono l’avete fatto, ma “forse vi siete montati la testa”. Seduti sul solito muretto, carta in mano, fecero conti su conti su chi li avrebbe appoggiati. Sulla marina non si poteva contare, altro mondo, altra testa. “Se potessimo contare solo sui voti di qui potremmo anche farcela”. Comunque la decisione era presa. “Neanche mio padre mi vota, dice che non vuole disperdere una scheda. Mia mamma sì”. Non vinsero, ma un consigliere venne eletto. Ora potevano buttare un occhio in municipio, entrare e uscire con un ruolo riconosciuto.
Il prete svizzero aveva raccontato di quel veliero sbarcato e di quei ragazzi che si erano presi cura delle persone. Di bocca in bocca, la notizia arrivò a chi si stava occupando della prima accoglienza in Italia. Erano le festività pasquali quando da Trieste arrivò a trovare i ragazzi una persona che intravvide la potenzialità di quella esperienza. Parlò loro di progetti e fondi del Ministero cui si poteva accedere attraverso un bando. Mimi pensò subito che si poteva fare. Del resto il sindaco non era mai presente, come molti lavorava al nord e tutto era lasciato all’improvvisazione. Terreno fertile per chi, come il neo consigliere, era abituato ad occupare spazi là dove venivano lasciati liberi. “Non ci sono state particolari resistenze, neppure particolare entusiasmo. Forse non avevano capito”. Convinse la maggioranza e furono fra i primi Comuni in Italia ad aderire al bando. Il tutto spedito all’ultimo minuto dell’ultima mezzora dell’ultimo giorno utile. Venne inaugurata una tradizione al cardiopalma, sempre. Abituati ai contratti con strette di mano, i giovani avevano una certa difficoltà ad adeguarsi. Mimì, da sempre allergico alle regole e alle imposizioni, si arrabbiò: “stiamo diventando dei burocrati”.
Intanto, le feste per la ginestra erano state riprese, la raccolta, un lungo procedimento. La sera si cantava accompagnati dalla chitarra battente. Arrivarono i primi immigrati, quindici persone: eritrei, afghani, etiopi, ospitati nelle case recuperate del borgo storico. Insieme a loro arrivarono i primi finanziamenti che permisero l’assunzione di alcuni ragazzi improvvisati operatori. Fu naturale adoperarsi per aprire laboratori recuperando spazi che fino a quel momento erano utilizzati come magazzini. A poco a poco, venne costruito un insieme di botteghe attraverso un percorso fra i vicoli che sembrava un piccolo presepe: la bottega della tessitura, la ceramica, il vetro, il ricamo. In ognuna lavoravano un immigrato e un ragazzo del borgo. Riempiti vuoti in spazi dimenticati e il paese ritornava a vivere. Era tutto molto speciale quello che stava succedendo, veloce; poche le professionalità specifiche, ma la buona volontà e la creatività tappavano ogni falla. Il cuore oltre l’ostacolo. Del resto, un progetto del genere avrebbe richiesto mesi di studi, architetti e ingegneri, permessi a non finire: se ci si fosse fermati a valutare i pro e i contro non si sarebbe fatto nulla. Ai negozianti del paese venne chiesto di fare credito, i finanziamenti sarebbero arrivati.
Per sicurezza venne creata una moneta (fittizia) alternativa. Si giocava in casa, sulla fiducia. Abituati, da anni a vivere con una economia ridotta all’osso, con pochi clienti poche entrate, quelle quindici persone portarono un vero scombussolamento. Positivo. La vera scommessa era risolvere ogni giorno i mille problemi che comportava aver a che fare con persone di un’altra lingua, altre abitudini, con aspettative diverse da quelle che nell’immediato poteva offrire quella piccola comunità immersa fra fichi d’india, piante grasse, terra bruciata dal sole in un labirinto di vicoli. Ma si andava avanti e il tempo passava. Nuove elezioni, nuova volontà di ricandidarsi. Pareva che la destra questa volta si presentasse divisa, pareva che di malumori ce ne fosse molti. Era il momento per ritentare e fare scacco matto. E così fu. Sul filo, i voti comunicati per telefono: “Alla marina scindimu ma qui salimu” Uno smacco. Mimi divenne sindaco con un buon risultato il 35,4 per cento. Una cosa assolutamente insperata, una “distrazione” degli avversari, una vittoria del borgo sulla marina. A quel punto, il gruppo di amici capì una cosa: avevano poco tempo per mettere in pista tutte le cose che avevano in testa. “Avanti e indietro, avanti e indietro”, diventò un mantra per tutti. Bisognava correre sempre, giù la testa e lavorare. Essere presenti di giorno e di notte perché il numero dei migranti accolti cresceva e insieme a questo anche il numero delle nascite. Il nuovo sindaco dimostrò che l’accoglienza non era affatto un problema ma poteva diventare una opportunità. Grazie ai nuovi cittadini vennero salvati alcuni servizi importanti come il presidio medico, l’ufficio postale, la scuola materna e anche quella elementare. Venne aperta una nuova panetteria e poi un bar e un alimentari. C’era di nuovo vita in paese. Un via vai senza precedenti, giornalisti, curiosi. Perfino scolaresche che venivano a visitare la fattoria didattica, un’altra invenzione. Erano diventati bravi a risolvere problemi e ad accorrere in marina appena arrivava uno sbarco, tanto che la Prefettura aveva preso l’abitudine di telefonare a loro appena c’erano famiglie e persone da sistemare. Quando decisero di occuparsi anche dell’acqua, “bene comune”, come avevano scritto nella delibera e prepararsi ad uscire dalla società che fino a quel momento aveva gestito tutto, si accorsero che erano trascorsi ben tre mandati amministrativi ed ogni volta avevano vinto le elezioni. Qualcuno bisbigliava sottovoce che altri Comuni della zona stavano copiando quel modello di partecipazione. Il virus stava dilagando.
La botta fu improvvisa. Arrivò in un giorno qualunque. La finanza i carabinieri la polizia si palesarono nel borgo. Con un’azione militare occuparono tutti i ruoli nevralgici: il municipio, il frantoio, la sede dell’associazione, la taverna, la piazzetta luogo di ritrovo. La gente guardava stupita e pensava ad una azione per scovare malavitosi, ‘ndranghetisti.
Il tempo di rendersi conto che l’oggetto delle attenzioni erano loro stessi: il venditore delle bombole di gas, il macellaio, il pecoraio… anche gli asini vennero messi con un sigillo sotto sequestro. Per portare da mangiare agli animali c’era bisogno del permesso del giudice. Mimi finì agli arresti domiciliari, misura strana per la verità, lui non poteva uscire ma poteva ricevere in casa tutti quanti. Il paese intero si riversò in quelle stanze. Qualche giorno dopo, il provvedimento cambiò: Mimi doveva lasciare il paese, poteva andare ovunque ma non rimanere lì. Mentre il sindaco preparava la borsa mettendo dentro due cose a casaccio, Giovanni, Cosimo, Domenico, Caterina, Annamaria, ammutoliti stavano a guardare. E adesso? “Abbiamo tentato l’assalto al cielo” ce la fanno pagare. Quella prima notte non accettò inviti e la trascorse in auto. Dopo qualche tornante si era fermato ad aspettare l’alba, aveva bisogno di pensare, di stare da solo. Gli vennero in mente molti fatti. Nel primo anno da sindaco, con un’azione forte aveva requisito un’abitazione, da anni disabitata, per darla ad Antonio conosciuto da tutti perché animava le strade, cantava, rideva, beveva, soprattutto beveva. Sua madre, conosciuta come lavandaia, andava a raccattarlo in giro. Una storia di povertà, un mondo pasoliniano, persone semplici, ai margini “Ma vanno protette”. Una storia complessa, braccio di ferro fra il municipio e il proprietario che era un giudice in pensione. Poi ci fu la decisione di aprire in marina i passaggi sul mare e rendere libera la spiaggia. E ancora, il blocco a nuove costruzioni per evitare ulteriore cementificazione. L’acqua pubblica. La sfilza di cose fatte sembrava non avere fine.
In piazza c’era fermento, le prime luci del giorno aveva trovato tutti svegli. La raccolta delle olive obbligava a ripartire con il frantoio. La solita stretta di mano con il barone, proprietario di appezzamenti, aveva suggellato un contratto. Bisognava ripartire, rimettersi in moto. Avanti e indietro, lavorare per salvare la vita nel borgo e non arrendersi.