La fiaccola accesa in Rwanda per ricordare – Foto: unionesarda.it
Al termine della settimana che Unimondo ha voluto dedicare al ricordo del genocidio in Rwanda e alla riflessione su come prevenire – con mezzi diplomatici, giuridici, politici e pure militari – il ripetersi di questo tipo di massacri, possiamo dire che la gente comune e gli addetti ai lavori sono stati molto interessati da questa iniziativa. A Trento abbiamo organizzato alcuni incontri pubblici, tutti partecipati e frequentati al di sopra delle nostre aspettative. Segno che i cittadini normali possono avere uno sguardo aperto alla dimensione globale.
Quando si parla di normalità, non si può non pensare al fatto che quanti commettono materialmente i genocidi sono i vicini di casa delle vittime, quelli con cui fino a poco prima si scherzava, si litigava ma in fondo si conviveva tranquillamente. Così è sempre avvenuto per ogni genocidio: le persone normali che si trasformano in sadici assassini. Il pericolo di questo cedimento al male è comune ad ogni essere umano. Quindi dovranno essere quelle stesse persone “normali” a costruire ogni giorno le contromisure che evitino il possibile dilagare della violenza.
Non bisogna andare lontano per trovare queste contromisure: esse si concretizzano in istituzioni internazionali che funzionano. Nel corso di un dibattito il professor Mauro Politi ha sottolineato le difficoltà di una giustizia penale internazionale che rischia di arrivare sempre in ritardo, di essere condizionata dalle “grandi potenze”, di essere scavalcata dalla politica e dalla situazione sul terreno: così il presidente sudanese Hassan Al Bashir, in teoria ricercato per essere processato per crimini contro l’umanità, è libero di frequentare le varie capitali africane. In realtà, aggiungiamo noi, fa abbastanza scalpore che, al di là del tribunale sulla ex Jugoslavia, il tribunale penale internazionale persegua praticamente solo personaggi africani o provenienti dai Paesi poveri.
D’altra parte anche la stessa dottrina dell’intervento umanitario desta più di una perplessità. L’ingerenza di Stati esteri su altri Paesi, anche se motivata da circostanze estreme, è sempre un’arma a doppio taglio. Se a ciò aggiungiamo la nefasta visione della cosiddetta “esportazione della democrazia” con le armi, vediamo che le guerre umanitarie non esistono, sono un ossimoro e nascondono le “solite” motivazioni economiche, geopolitiche, energetiche, strategiche che determinano lo scoppio dei conflitti.
Non si può pensare però che gli strumenti giuridici, anche se fossero perfettamente imparziali e straordinariamente efficienti, siano in grado di fermare o addirittura di prevenire la violenza. La giustizia, pure quella civile, arriva sempre dopo, quando i fatti sono già avvenuti. Sanziona, priva della libertà, crea le condizioni di una riconciliazione. Su quest’ultimo aspetto i tribunali e le commissioni di inchiesta e di accertamento della verità hanno dato la loro prova migliore. Essi sono fondamentali per creare una consapevolezza generale e per distinguere i colpevoli dalle vittime. La Germania democratica è un esempio lampante: dopo gli orrori del nazismo, i tedeschi hanno compiuto un’opera mai vista di revisione della propria storia e di ammissione della propria (quasi collettiva!) colpevolezza. A distanza di quasi 70 anni vediamo come in Germania non spirino quei pericolosi venti nazionalisti e populisti – se non proprio fascisti – che registriamo in altri Paesi europei. Questo non si può dire per esempio dell’Italia che ha in un certo senso “rimosso” il periodo della dittatura fascista, quasi che la Resistenza fosse stata sufficiente a cancellare tutte le colpe e le responsabilità. Invece le commissioni speciali per la giustizia e la riconciliazione che hanno lavorato dopo le grandi tragedie come quella in Rwanda hanno dato frutti molto positivi.
Che fare allora per passare dal “quasi sempre” di guerre e pure di genocidi al “mai più” che tutti auspichiamo? Forse bisognerebbe coniugare due parole: realismo e sogno. Partiamo dal realismo. A livello internazionale occorre fare i conti con la logica di potenza da cui nessuno è immune, specie chi siede come membro permanente al Consiglio di sicurezza Onu. Non dimentichiamoci di avere uno sguardo lungo, di non dimenticare subito il passato. Molti conflitti e in particolare la seconda guerra in Iraq hanno minato l’autorevolezza di una visione multilaterale: gli USA si erano autoslegati da qualsiasi tipo di diritto, perché loro erano la super potenza. Non meravigliamoci se altri regimi sicuramente meno democratici, come la Russia di Putin, non si sentano liberi di vanificare la Carta dell’Onu. Dobbiamo però fare i conti con questo scenario. Ancora il realismo ci dice che la politica (accompagnata dalla forza militare) viene prima delle norme giuridiche. Purtroppo è così. Ciò forse è inevitabile. La politica, intesa come volontà degli Stati e delle istituzioni, avrà sempre l’ultima parola.
Questo però potrebbe essere anche un elemento di forza. Il sogno di una imparziale giustizia internazionale va coltivato in quanto strumento di pressione sulla politica. In secondo luogo inevitabile è lavorare per il rafforzamento delle istituzioni regionali o globali. L’Europa arriva tardi e rischia di fermarsi proprio sulla creazione di un esercito europeo. La Russia preme sull’Ucraina? Devono intervenire gli Stati Uniti, che ovviamente pensano prima alle loro priorità strategiche. Un vero esercito europeo potrebbe essere utile anche in queste situazioni. Inoltre fare una grande autocritica sulla gestione dei contingenti Onu: troppe volte i Caschi blu non hanno esercitato per nulla la loro missione, talvolta hanno favorito addirittura i genocidi.
Il realismo ci direbbe che solo un “equilibrio di potenza” potrebbe circoscrivere i conflitti. Il sogno realista della cultura della pace ci parla invece di disarmo. Questo è un altro fondamento imprescindibile. Disarmo vuol dire tantissime cose: meno spese militari, riduzione degli arsenali, meno armi vendute a Paesi o gruppi stimati amici, meno produzione bellica. Se non si hanno in mano le armi non si uccidono le persone.
Ecco dunque i punti di un’agenda possibile anche in vista di Arena di Pace 2014. Giustizia penale globale, istituzioni internazionali, capacità di intervento (che vuol dire forza militare ma soprattutto forze civili di pace), disarmo, educazione alla pace. Portiamoli avanti tutti insieme.