“L’educazione dovrebbe inculcare l’idea che l’umanità è una sola famiglia con interessi comuni. Che di conseguenza la collaborazione è più importante della competizione”
Bertrand Russell

In queste settimane, proprio in concomitanza con la corsa al Rearm Europe di Ursula Von Der Leyen, a livello mediatico e culturale si è continuato a pontificare sull’importanza di “un’Europa Unita” sulla falsa riga dei “padri fondatori di Ventotene”, salvo poi non aver mai letto il Manifesto di Ventotene e sfociare in una retorica europeista che sempre più ha le stesse caratteristiche di una qualunque moda del momento.

In questi trent’anni di Unione Europea non si è fatto altro che opporre ogni singolo nazionalismo sciovinista all’ideale dell’europeismo, spesso facendo intendere che “essere europeisti” elevasse il proprio status morale e civile.

Nulla di più falso e falsato. Oggi più che mai si vede come l’europeismo di cui si parla è in realtà un’alter-ego dei tanti vergognosi nazionalismi, etnicismo, etnocentrismi, sciovinismi e localismi del passato quanto del presente. La retorica europeista ha il fine di generare un “nazionalismo europeista”.
L’europeismo che si è realizzato in questi decenni ha mostrato finalmente il suo volto, gettando la sua maschera fatta di ricami sulla “convivenza pacifica di popoli”. L’europeismo ha dimostrato di essere un grande ideale nazionalista che ha la sua base nell’eurocentrismo; nella presunzione suprematista dell’essere l’unica civiltà; nella presunzione che debba insegnare a tutto il resto del mondo il “vivere civile” e il vago ed indefinito ideale di “libertà”; nella presunzione eurocentrica di possedere a differenza di altri La Filosofia, La Scienza, La Cultura, La Democrazia.

Non serve un genio per capire che gli europeisti di oggi, in modo bonario, stanno usando lo stesso linguaggio dei beceri nazionalismi. Con il bombardamento mediatico di queste settimane sul “sentimento europeo”, sulla “cittadinanza europea” e sul “sentirsi europei” (cosa che già ai tempi della Brexit si sentiva in modo nauseante) si ha la sensazione che l’europeismo del riarmo di oggi voglia a tutti i costi gettare nel dimenticatoio tutti i beceri nazionalismi sorti in Europa, non tanto perché sono malsani e tossici, ma perché vuole riaffermare un altro becero nazionalismo fondato sull’ “identità europea” di cui tanto si parla.

Credo che non solo dobbiamo rifiutare i nazionalismi, ma anche la logica dei nazionalismi ed approfondire meglio cosa significa essere “nazione”. Ogni antropologo, sociologo, politologo e filosofo vi può dire che ogni nazione è una struttura artificiale. Ogni gruppo umano è nato perché si è autodefinito ed ha avuto il bisogno/idea di definirsi. Se noi prendiamo gli etnonimi, ovvero i nomi delle etnie che i popoli si autoassegnano, vediamo che nella stragrande maggioranza dei casi ogni popolazione si è definita con termini positivi: “gli uomini”, “i guerrieri”, “i coraggiosi”, “gli uomini liberi”, “gli uomini integri”. Nessuno si è autodefinito con termini negativi perché ciascuno ha un’autopercezione di sé migliore di quella che è, o comunque pensa di essere migliore di qualcun altro, ed ha una percezione dell’altro come “un po’ meno uomo”, “un po’ meno coraggioso”, “un po’ meno libero”, “un po’ meno integro”.

Questo è il germe dell’etnocentrismo, che a sua volta nasce anche dal bisogno positivo di definire un “noi” e tracciare – spesso in modo negativo – un confine tra “noi” e “loro”. Ogni popolazione del mondo si è percepita tale in base a stratificazioni storiche, sociali, culturali, religiose, linguistiche e questo è anche il processo che ha travolto (non in tutti i casi) anche il processo di formazione degli Stati nazionali: un gruppo umano ha sentito il bisogno di autodefinire la convivenza in un “noi” in cui si condividono certi elementi; ogni gruppo si è autodefinito come tale, l’autopercezione ha definito i presupposti per autopercepirsi come tali (ovvero l’identità) e le caratteristiche sono il presupposto per essere tutti insieme una “nazione”. https://www.youtube.com/watch?v=ptin17aIN-0

Una cosa è importante ricordare: i concetti di “nazione” e di “comunità” non sono negativi di per sé, ma possono diventarlo in base ai presupposti su cui questi gruppi decidono di fondarsi e costruirsi. Infatti possono diventare negativi quando o si crea una “comunità chiusa” o il concetto di “nazione” viene imposto dall’alto: uno si fonda su un’idea escludente dell’alterità, mentre il secondo ha l’intento di omologare, uniformare, assimilare a sé l’altro senza che venga riconosciuto come tale. Questa distinzione si può ben vedere da un lato oggi con la crescita dei nazionalismi xenofobi in tutta Europa; e dall’altro nella storia delle colonizzazioni, delle invasioni e degli sciovinismi dove dei popoli che si consideravano superiori hanno distrutto, invaso, colonizzato altri popoli innescando una rivalsa patriottica nei popoli oppressi che hanno lottato per la loro liberazione e la loro indipendenza (diritto umano all’autodeterminazione dei popoli ).

Non dobbiamo dimenticare, come scriveva l’antropologa Ida Magli, che: “Un popolo è come un individuo, la sua identità si costruisce allo stesso modo con il quale si costruisce quella d’un individuo: con il proprio nome, i propri antenati, la propria famiglia, la propria casa, la propria lingua, la propria storia”. Non dobbiamo dimenticarci che i popoli, le culture, le lingue esistono e non sono artificiali.

Quindi, se è vero che la “nazione” è una comunità pre-politica di destino, un fenomeno artificiale, e può essere – se malsano – un rovinoso modello per accumunare in base alla nascita e al suolo, un principio per discriminare il “noi” dal “loro”; è anche vero che se un concetto di “nazione” viene imposto artificialmente dall’alto ad una pluralità di popoli, che non si sentono uno, può generare gli stessi conflitti fratricidi.

È questo il motivo fondamentale per cui il progetto d’unificazione europea – sul modello funzionalista di Jean Monnet – era sbagliato fin dall’inizio ed ha generato una crisi evidente: l’hanno chiamata “crisi” i politici che avevano voluto costruire l’Unione Europea senza consultare i popoli. Quello che oggi si vede chiaramente, quindi, non è la crisi bensì il giudizio negativo dei popoli e la debolezza di una costruzione cui manca qualsiasi forza vitale proprio perché mancano i popoli.

I grandi popoli della storia, penso ai popoli indigeni della Terra, non hanno mai deciso a tavolino di autopercepirsi tali. La loro costituzione non è mai avvenuta in modo meccanico, ma in modo più o meno spontaneo in lunghissimi processi che si perdono nella notte dei tempi. Non si sedevano a tavolino per decidere come autodefinirsi, ma vivevano la convivenza e la condivisione quotidianamente con tutte le difficoltà del caso ed è questa che costruiva quotidianamente il loro sentimento di appartenenza ad una comunità, facilitati anche da legami culturali, linguistici, religiosi e di altro tipo che avevano instaurato spontaneamente.

Inoltre, molti sostengono che esattamente come ci sono gli “Stati Uniti d’America” ci possono essere anche gli “Stati Uniti d’Europa”, ma questi dimenticano la storia. Gli USA si concepiscono “nazione” e sono l’esempio più lampante di come una nazione si costruisce in modo artificialmente: una nazione nata dalle ceneri di uno dei più grandi etnocidi della storia dell’umanità (100 milioni di nativi nordamericani); una nazione composta da discendenti di coloni europei, da discendenti di galeotti europei mandati all’epoca a colonizzare, da discendenti di europei migrati in America per cercare fortuna e da discendenti degli schiavi africani importanti dagli europei per lavorare nelle loro grandi distese di piantagioni.
L’Europa non ha questa storia: siamo una pluralità di nazioni, popoli, lingue, culture, tradizioni diverse tra loro che hanno imparato, nonostante i campanilismi, a vivere pacificamente. Un tedesco è molto diverso da un italiano e non è la stessa diversità che ci può essere tra un abitante del Montana ed uno dell’Illinois: questo perché i primi sono attraversati da storie, culture e mentalità diverse evidenti che sono una ricchezza; mentre i secondi sono uniti da Whitman, dall’american view of life, dal Giorno del Ringraziamento e dall’emozione per la bandiera a stelle e strisce.

Davvero siamo convinti che allargare il concetto di “nazione” oggi, superando le altre nazioni, possa essere la soluzione. Se è vero che il concetto di “nazione” ha portato ai conflitti fratricidi nella storia novecentesca dell’Europa, è anche vero che una “nazione europea” estenderebbe solamente la percezione di un “loro” fuori dai confini europei. Questo sembra proprio essere il segnale del Rearm Europe di Von Der Leyen. Quale beneficio può portare spostare il tratteggiato del confine, senza mettere in discussione il confine stesso? Semplice: riproporre la stessa logica della ormai ritrita “unità nazionale” per stabile un nuovo nemico e preparare la guerra.

Gli “Stati Uniti d’Europa” di cui tanto si parla oggi sarebbero una federazione europea su base neoliberale nonché una copia degli “Stati Uniti d’America”: una nazione artificiale che nei decenni è stata la culla dell’imperialismo, dello sciovinismo e del nazionalismo più sfrenati che hanno generato solo altre guerre per il mondo.

Io non credo che oggi sia giusto parlare di “identità europea”, “cultura europea”, “sentirsi europeo”, “Stati Uniti d’Europa”. Non è mai esistita una “cultura europea” e una “identità europea” proprio perché sono sempre esistite le “culture europee”, le “identità europee”, le “nazioni europee”: una più diversa dall’altra e con influenze completamente diverse l’una dall’altra. Nella storia sono in molti ad aver avuto l’“idea di Europa”, ma i tentativi di unificazione non sono mai andati a buon fine perché non è mai esistita un’Europa se non come territorio geografico. Quello che è sempre esistito è una pluralità di nazioni, lingue, culture, popoli con i loro nomi a cominciare dai Romani, i Galli, gli Iberici, Celti, Alemanni, Longobardi, Franchi, Ungari, Volsci, Etruschi, etc che a loro volta hanno plasmato, contaminato ed influenzato altre culture.

Sono veramente pochi quelli che per entusiasmo e ideologia nazional-europeista si potrebbero definire oggi “cittadini europei” di un “popolo europeo”. Io stesso, non avendo alcuna simpatia per i nazionalismi, posso dire di essere italiano per questioni di nascita (di non sentire troppo entusiasmo per questo) e di non sentirmi europeo perché non so cosa significhi. Posso però dichiarare di sentirmi un umano che fatica a trovare un posto in questo mondo e che avrebbe l’ambizione di considerarsi “cittadino del mondo”, anche se a nessuno importa molto di percepisci una grande umanità pluriversale in cui vengano valorizzate/sacralizzate le diversità.

Come “Europa”, saremmo l’ennesima nazione artificiale che non ha imparato dalla storia, con il rischio di far scoppiare guerre fratricide interne: perché un conto è sentirsi popoli fratelli indipendenti ed un altro è sentirsi un unico popolo. Oltretutto il termine “Europa” è di per sé l’esempio della nostra autopercezione positiva, in quanto la parola potrebbe derivare da “eurus”, che significa “ampio”, e “ops”, che significa “occhio”, ovvero “ampio sguardo”. Ed è proprio questo “sguardo ampio” ad essere lo specchio di ciò che l’Europa, come tale, si è sentita in passato e si sente di avere rispetto agli altri popoli della Terra.

Celebrare l’Europa – come ha vergognosamente affermato Michele Serra – oggi significa dimenticare che questa stessa Europa ha costruito il suo impero sul colonialismo, che ha fomentato guerre e che ora si veste da paladina della pace mentre vende armi e continua ad armarsi. Gli europeisti più accaniti dimenticano che l’Europa non è nata ieri, ma è nata sulle spalle di popoli oppressi, sulle risorse rubate, sulle culture distrutte, sull’occidentalizzazione e soprattutto sugli epistemicidi, ovvero gli annientamenti di altre visioni di mondo. Il colonialismo europeo è stato un gigantesco saccheggio globale, e oggi ci ritroviamo a celebrare un continente che si è arricchito grazie alla schiavitù e a stermini.

L’Europa, che si vanta di essere un faro di civiltà, nasconde scheletri nell’armadio che farebbero impallidire anche il più cinico dei dittatori. Ecco perché passare dai nazionalismi ipertrofici al “nuovo nazionalismo” incensato dalla retorica europeista odierna non solo è nauseante, ma patetico.
Il concetto di “Europa”, se vogliamo dirla tutta, non è mai stato un concetto democratico nè tantomeno pacifista. È così grottesco da sembrare quasi una barzelletta. Come ricordava il filologo Luciano Canfora in una intervista al giornalino dell’ONG Emergency qualche anno fa, “l’idea di Europa” nel Novecento nasce nel 1915 con l’ideale pangermanista di “Mitteleuropa” esplicitata da Friedrich Naumann ed in seguito come una dettagliata strategia per il predominio economico-militare della Germania rispetto alle altre potenze europee perpetrata da Adolf Hitler attraverso il Piano Funk, redatto appunto da Walter Funk in qualità di ministro per gli affari economici del Terzo Reich dal 1938 al 1945.

Ecco perché mi preoccupano tutte quelle illazioni europeiste che continuano ad esserci: dall’appello di Michele Serra su La Repubblica, all’appello “Per un’Europa Libera e Forte” della neoliberale Pina Picierno; dall’eurocentrismo/eurorazzismo di Roberto Vecchioni, alle banalità bellicistiche di Corrado Augias; per non parlare delle strumentalizzazioni del Manifesto di Ventotene da parte sia di Giorgia Meloni sia dei federalisti europei. Mi preoccupano anche coloro che parlano della necessità di una dichiarazione “We Are Europe People” perché somiglia molto, parafrasando Trump, a “Make Europe Great Again” o “Europe First”, o parafrasando Obama, “Yes, we can”: tutte facce della stessa medaglia.
Il “partito unico europeista della guerra” ama le bandiere blu dell’Unione Europea a tal punto da manifestare con esse e dice di far tesoro dei “valori fondativi dell’Europa”.

Ma di quale “Europa” e di quali “valori europei” si continua a parlare?

È arrivato il momento di dire chiaramente e senza mezzi termini che l’Europa che abbiamo vissuto in questi decenni è stata una finzione comunicativa e retorica. I principi del Manifesto di Ventotene non si sono mai realizzati, poiché non si è mai realizzata l’idea di una confederazione socialista di Stati sovrani, fratelli, solidali, interdipendenti, basati sulla garanzia di un solido welfare state senza sopraffazione reciproca in cui la convivenza dei popoli, delle culture fosse garantita. Per non parlare dell’ideale dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer, di Georges Marchais e di Santiago José Carrillo Solares – plasmato sui nobili ideali politici ed etici dell’internazionalismo – che è stato solo pensato sulla carta, ovviamente, e mai realizzato per evidenti motivi di svantaggio politico che tutte le forze comuniste hanno avuto in Occidente.

L’Unione Europea di oggi è nata su ispirazione del progetto Pan-Europa del liberalconservatore Kalergi (il primo in assoluto a parlare di “Stati Uniti d’Europa”) per un’Europa tecnocratica; sulle spoglie dell’integrazione economica della CECA del 1951 basata sull’estrattivismo; sul modello funzionalista di Jean Monnet che consisteva nel “togliere sovranità agli Stati senza che se ne accorgessero”; sull’idea di integrazione monetaria dell’economista francese Francois Perroux con l’idea di “togliere agli Stati la loro ragion d’essere”; sull’ordoliberismo tedesco che ha mantenuto la Germania in una posizione egemone con l’economia sociale di mercato dei trattati di Maastricht; e sul libero mercato della globalizzazione capitalista.

Quindi di quali “valori fondativi europei” si continua a parlare?

Il 10 dicembre 2012, con una decisione unanime del Comitato norvegese per il Nobel, il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato all’Unione Europea “per il suo contributo al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa”, per aver “creato un’unità tra popoli differenti” e per aver “riunificato il continente attraverso gli strumenti della pace”. Il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, commentò che il premio Nobel per la pace “è per tutti i cittadini dell’Unione europea”; mentre Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha affermato che è stato “il più forte riconoscimento che l’Unione europea potesse ricevere”.

Tanti sarebbero gli esempi che testimoniano l’ipocrisia di questa Europa, ma questo latrato lo testimonia meglio di tutti. Si dimentica l’americanizzazione della difesa europea, in cui i Paesi europei hanno delegato la difesa alla NATO diventando de facto delle pedine neocoloniali. Si dimenticano i “contributi alla pace e alla riconciliazione” dell’Europa con la guerra umanitaria in Jugoslavia, il bombardamento del Kosovo, l’appoggio al conflitto out of area della NATO in Afghanistan, la devastante guerra in Libia e il silenzio-assenso sul conflitto in Siria; si dimenticano i “contributi ai diritti umani” dell’Europa con i migranti morti ibernati a Calais, con la militarizzazione a Ceuta e a Melilla, con l’Agenzia Frontex e la militarizzazione dei flussi migratori, con l’ecatombe di più di 30mila migranti morti dal 2000 al 2024 nel Mediterraneo, con l’Accordo Italia-Albania e la sospensione dei diritti umani, con la facilitazione della tratta di essere umani (e il rimpatrio del generale libico Almasri), con la repressione della Rotta Balcanica, con il muro di filo spinato in Lettonia e in Ungheria, con l’entrata della Finlandia nella NATO ed un’ulteriore espansione ad Est del blocco occidentale.

Per non dimenticare i grandi “contributi alla riconciliazione” dell’Europa, a tal punto che dagli anni Novanta nei Paesi Baltici vi è in atto una progressiva fascistizzazione della popolazione oltre al consolidamento di sentimenti etnonazionalisti e russofobi post-sovietici: in Lituania si commemora normalmente la morte dei collaborazionisti nazisti esaltati come “eroi nazionali”, mentre recentemente l’Estonia ha dichiarato che vieterà di parlare la lingua russa entro il 2030.

Un tale “progresso per la pace” che nel 2014, dopo un colpo di Stato, è scoppiato il conflitto in Donbass con battaglioni paramilitari dichiaratamente neonazisti affiliati all’Esercito Nazionale Ucraino autori di crimini di guerra sulla popolazione civile russofona e non, sfociando nella seconda fase del conflitto nel 2022.

Quali “strumenti della pace” ha usato l’Unione Europea in questi anni? Quale diplomazia? Se non prendiamo consapevolezza di questo rischiamo veramente di credere a quello che viene normalizzato o ovviato ogni giorno dalla classe politica e dagli apparati mediatici, finendo per bere quintali di retorica andata a male.

Non ho mai creduto alla falsa retorica dei tanto amanti ed incensati “valori occidentali” usata strumentalmente all’occorrenza da nazionalisti, neoliberali e atlantisti né tantomeno alla retorica dei “valori europei” di cui straparlano i federalisti europei; ma, se devo crederci, credo che sia proprio questa Europa di oggi ad essere la vera bancarotta dei nostri “valori fondativi” esplicitati:

– nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea in quanto ci sono Paesi che stanno compiendo respingimenti collettivi illegali;
– nella Convenzione di Ottawa del 1997 in cui si prevede la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antipersona e relativa distruzione. Oggi ci sono i Paesi Baltici che hanno annunciato il ritiro dalla convenzione per non precisati “motivi di sicurezza”;
– nella Convenzione di Oslo del 2008 che vieta l’uso, la detenzione, la produzione e il trasferimento di munizioni a grappolo e impone la distruzione degli stock esistenti;                                                                        – Il Trattato di Non-proliferazione nucleare entrato in vigore nel 1970, che tutti gli Stati europei violano detenendo sui loro territori ordigni nucleari americani nelle rispettive basi NATO;
– La Carta di Oviedo del 1997 per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina, completamente stralciata con le politiche pandemiche e le strategie sanitarie durante la crisi sanitaria da Covid-19.

Per non parlare dei diritti sociali che in Europa sono stati sacrificati in nome del mercato, della finanza, dell’efficientismo, della competizione, del denaro, delle armi, della militarizzazione e dell’ipocrisia istituzionalizzata.

Le Carte per i diritti sopracitate attingono ai “valori umani” che sono presenti in tutte le culture del mondo e non solo in quelle occidentali.

Sia con la guerra in Ucraina nel 2022 sia oggi con l’occasione del riarmo abbiamo dimostrato di non volere “un’Europa della coesistenza pacifica” tra popoli e Stati fratelli, ma sempre più emerge la volontà di perseguire “un’Europa della guerra” costruita sul mito della sicurezza, sul mito dell’autosublimazione (“siamo qualcosa di grande, quindi ci meritiamo e meritiamo di più”) e sull’induzione della paura dei popoli europei a partire dal fatto che “se siamo divisi siamo spacciati”. Un paradigma che non c’entra nulla con l’inclusività, la valorizzazione delle diversità culturali, i diritti umani, il vivere in pace, ma c’entra con la logica di guerra: “se ci attaccano siamo spacciati perché non abbiamo una difesa europea”. Poi si dovrebbe anche capire quale strategia soggiace con 800 miliardi in armamenti ai singoli Paesi senza una difesa comune.

In un mondo sempre più multipolare, l’Europa deve aprirsi al mondo a livello diplomatico e non chiudersi in sé stessa. Per questi motivi dobbiamo dire chiaramente Not Europe First, come lo diremmo di qualsiasi altro Paese poiché quando solo concepiamo l’esistenza di qualcuno che viene prima, ci saranno sempre i “secondi”, i “terzi”, i “quarti” a pagarne le conseguenze. E spesso quei “quarti” siamo ancora noi.