Il parere dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea, sulla portata della designazione dei paesi di origine sicuri nelle procedure accelerate in frontiera non dà “ragione al governo”, ma se letto per intero, senza limitarsi al consueto comunicato “diplomatico” diffuso dalla cancelleria della Corte, dimostra di contenere diversi elementi contraddittori.
Nodi ancora problematici, già evidenti nell’atto di costituzione in giudizio della Commissione europea nell’udienza del 25 febbraio scorso, che dovranno essere risolti nella futura sentenza dei giudici di Lussemburgo. E che potranno essere fatti valere sul piano della giurisdizione interna, per quanto riguarda l’effettiva attuazione dei diritti di difesa (art.47 della Carta UE), il richiamo ai criteri vincolanti per la normativa Ue ai fini della designazione di un paese di origine come “sicuro” (di cui all’allegato 1 della Direttiva 2013/32/UE), il ruolo del giudice nazionale. Al quale, diversamente da quanto sostenuto dal governo italiano, si riconosce il potere/dovere di valutare ex nunc la legittimità dei criteri utilizzati dal legislatore, se non più dall’autorità amministrativa, per la designazione del paese di origine sicuro, oltre alla doverosa indagine sulla condizione personale del richiedente asilo, anche dopo il diniego della istanza di protezione.
A tale riguardo l‘Avvocato generale della Corte di Lussemburgo riconosce espressamente il potere del giudice nazionale di valutare la legittimità dell’atto di designazione, con l’inserimento in una apposita “lista”, quando i criteri adottati non sono adeguatamente esplicitati, sindacando anche eventuali casi di mancato aggiornamento. Al punto 48 del Parere si afferma così che “il solo fatto che un paese terzo sia designato come paese di origine sicuro da un atto legislativo non può comportare che esso sia sottratto a detto controllo di legittimità, salvo privare l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 di ogni efficacia pratica. Nella misura in cui, procedendo a una siffatta designazione, detto atto legislativo determina le domande di protezione internazionale che possono essere esaminate con procedura accelerata e/o prevede che detta procedura sia svolta alla frontiera o nelle zone di transito, a norma dell’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), di detta direttiva, tale atto legislativo dà attuazione al diritto dell’Unione e deve, indipendentemente dal suo titolo o dalla forma che esso assume nel diritto nazionale, assicurare il rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali riconosciute ai richiedenti protezione internazionale dal diritto dell’Unione”.
Il Parere dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia UE che verte non solo sui criteri di designazione dei paesi di origine sicuri, ma anche sulla effettività dei diritti di difesa, sui poteri del giudice e sul ruolo sovraordinato del diritto dell’Unione, sembra così collocarsi più vicino alla sentenza di rinvio pregiudiziale della Corte di Cassazione (33398/2024) del 19 dicembre scorso, su un ricorso contro un diniego di protezione, piuttosto che alla successiva “ordinanza interlocutoria” della stessa Cassazione su un ricorso contro un decreto che negava la convalida di un provvedimento questorile di trattenimento, rivolta alla Corte di Lussemburgo pochi giorni dopo (Cass. 30/12/2024, n. 34898).
Tra le righe dell’ordinanza “interlocutoria” si poteva cogliere un messaggio rivolto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, chiamata a decisioni che avrebbero dovuto limitare i poteri dei giudici ed evitare effetti destabilizzanti per il sistema europeo dell’asilo e per le relazioni tra i paesi membri, con riferimento ai cosiddetti movimenti secondari, da un paese all’altro dell’Unione. Una impostazione teleologica, potremmo dire politica, quella sottesa all’ordinanza “interlocutoria” della Corte di Cassazione, che il Parere dell’avvocato generale della Corte di Giustizia UE non sembra avere accolto.
Diversamente da quanto sostenuto da alcuni media vicini al governo, il documento presentato dall’avvocato generale della Corte UE, dunque, non “smonta le toghe”, né offre alcuna copertura ai tentativi di riavviare il “modello Albania”, né per i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri in procedura accelerata di frontiera, una “frontiera” inventata al di fuori dei confini dell’Unione europea, né per la versione più recente di questo “modello”, che dovrebbe comportare il trasferimento nel CPR di Giader di persone già destinatarie in Italia di provvedimenti di allontanamento forzato e trattenute in un Centro per i rimpatri (CPR).
Le questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Roma, e da altri Tribunali italiani davanti alla Corte di Giustizia UE, riguardano tutte le procedure accelerate in frontiera, soprattutto quelle attivate in territorio italiano, e le richieste di asilo respinte per manifesta infondatezza, proprio per la provenienza da paesi designati come sicuri. Ma non toccano direttamente la questione ancora aperta della legittimità della esternalizzazione in Albania delle procedure di asilo che dovrebbero svolgersi “in frontiera”, criticate anche dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, e del trasferimento forzato in Albania e quindi del trattenimento amministrativo di persone già presenti in territorio italiano, che dovrebbero essere respinte o espulse verso i paesi di origine, anche al di là della eventuale designazione di questo paese come sicuro.
Il nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 sulle procedure di asilo, come la vigente legislazione unionale, considerando anche la Direttiva rimpatri 2008/115/CE, non fornisce alcuna copertura al Protocollo Italia-Albania. In base al futuro Regolamento, la procedura di frontiera può svolgersi “in un luogo sito alla frontiera esterna o in prossimità della stessa ovvero in una zona di transito” ma in assenza di disponibilità in tali luoghi, “lo Stato membro può ricorrere ad altre sedi sul proprio territorio”. Sedi che evidentemente non si possono trovare sul territorio di un paese terzo, come l’Albania.
L’art. 54 del Regolamento (2024/1348/UE) indica i “Luoghi per l’espletamento della procedura di asilo alla frontiera. Per la durata dell’esame delle domande con procedura di frontiera, uno Stato membro esige, a norma dell’articolo 9 della direttiva (UE) 2024/1346 e fatto salvo l’articolo 10 della stessa, che, come regola generale, i richiedenti soggiornino alla frontiera esterna o in prossimità della stessa ovvero in una zona di transito, o in altri luoghi designati sul proprio territorio, tenendo pienamente conto delle specificità geografiche di tale Stato membro”. Non si prevede dunque in alcun modo l’espletamento di una procedura accelerata in frontiera. o il trattenimento amministrativo, in un paese terzo esterno all’Unione europea, come si vorrebbe fare credere da parte del governo italiano nel caso del Protocollo Italia-Albania.