Moussa aveva solo 26 anni quando è stato ucciso, e portava addosso i segni di una vita già pesante di abusi e sofferenze. Nel 2014 aveva lasciato il Mali, non solo per cercare di mantenere la sua famiglia, ma anche a causa degli attacchi dei gruppi jihadisti ai villaggi della sua area. Sopravvissuto all’inferno della Libia, nel 2016 era approdato in Italia e destinato ad un centro di accoglienza straordinaria. Ottenuto il permesso di soggiorno, aveva cominciato a svolgere lavori precari e ad inviare soldi alla sua famiglia. Non riuscendo a trovare una stanza in affitto (come ormai capita a decine di migliaia di migranti che lavorano, soprattutto nelle città affette da over-turismo), dal 2022 abitava in una casa occupata insieme ad altri quaranta giovani uomini nelle sue stesse condizioni.

Il 20 ottobre 2024, alle sette di mattina, all’uscita della stazione di Verona Porta Nuova, Moussa Diarra veniva ucciso da un colpo di pistola sparato ad altezza d’uomo da un agente della Polfer. Il ministro Salvini, poco dopo, pubblicava sui social un post affermando “Non ci mancherà”.

A cinque mesi dalla sua morte, c’è ancora il buio assoluto su cosa sia davvero successo al momento della sua uccisione. Sembra che Moussa da un paio d’ore si aggirasse per la città in forte stato confusionale, ma in questo caso ci sarebbe stato bisogno di un’ambulanza, non di una pistola mirata al cuore. La spiegazione fornita nell’immediatezza attraverso un comunicato congiunto della Procura e della Questura (l’agente avrebbe sparato per legittima difesa) non ha trovato finora alcun riscontro. Per questo sono stati nominati periti di parte civile oltre ad un team di avvocati ed avvocate. Sarà una lunga e complessa battaglia legale, come tutte quelle che vedono lo Stato e soprattutto le forze dell’ordine sul banco degli imputati. Ad oggi, gli avvocati delle persone offese, cioè dei familiari della vittima, non hanno ancora potuto vedere l’esito delle perizie d’ufficio e le immagini delle telecamere.

Chiediamo quindi alla Procura della Repubblica di Verona di porre gli avvocati e i periti delle parti offese nelle condizioni di svolgere al meglio il loro lavoro. Chiediamo un’indagine rigorosa e un processo serio e trasparente che accerti la verità, al di là di tutte le narrazioni tossiche riportate da alcuni media locali.

Chiediamo alle istituzioni locali, regionali, nazionali ed europee, di realizzare politiche di cura che garantiscano la vita, la dignità e la sicurezza delle persone più vulnerabili. Chiediamo politiche e servizi pubblici per la salute mentale. Chiediamo, nei confronti dei migranti e delle persone senza dimora, politiche inclusive e non discriminatorie e criminogene.

Se Moussa Diarra non avesse avuto alle sue spalle una comunità che lo aveva accolto e supportato, e che oggi si sta battendo per ottenere la verità sulla sua morte,  la sua storia sarebbe finita tra le mille altre vite negate che in questo paese sembrano contare meno e restano racchiuse in un breve trafiletto in cronaca. Per questo pensiamo che chiedere verità e giustizia per Moussa sia un impegno sociale e collettivo necessario, un segno di civiltà contro un sistema repressivo ed oppressivo. E per questo chiediamo che cresca e si rafforzi una rete nazionale di sostegno che coinvolga intelligenze e sensibilità diverse.

Chiediamo infine, a chi legge questa petizione, di firmarla e di effettuare una donazione per le spese legali sul conto corrente bancario  intestato a CIRCOLO PINK VERONA, IBAN: IT65G0103011707000011099492, causale: “PER MOUSSA DIARRA”.

Primi promotori di questa petizione

Mahamoud Idrissa Bouné, presidente dell’Alto Consiglio dei Maliani in Italia
Ilaria Cucchi, senatrice della Repubblica
Mimmo Lucano, europarlamentare
Luca Casarini, fondatore di Mediterranea Saving Humans
Peppe De Cristofaro, senatore della repubblica
Francesca Ghirra, membro della Camera dei deputati
Marco Grimaldi, membro della Camera dei deputati

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