Dopo l’Artico, l’area del Mediterraneo è la più colpita dai cambiamenti climatici. Il nostro mare si riscalda del 20% più velocemente rispetto a tutti gli altri. Le conseguenze del riscaldamento globale sono particolarmente intense, con potenziali impatti sugli habitat marini, coinvolgendo anche zone della Liguria.

Innalzamento della temperatura nel Mar Mediterraneo

C’è stato un tempo in cui le acque del Mediterraneo scandivano le stagioni con regolarità: fresche in inverno, accoglienti in estate, mai eccessive, mai estreme. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Chi lo attraversa, chi ci nuota dentro, chi vive di pesca o di turismo lo sa bene: il mare si sta scaldando, troppo e troppo in fretta. Correnti più calde, specie tropicali che prendono il posto di quelle autoctone, tempeste più violente. È come se il Mediterraneo avesse la febbre, e il termometro continua a salire. Ma cosa sta succedendo davvero?

Nel 2023 le attività di indagine climatica condotte da ENEA e INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) in collaborazione con GNV (Grandi Navi Veloci) hanno messo in evidenza dati sconcertanti sull’innalzamento della temperatura nel Mediterraneo.

Il riscaldamento non ha interessato solo gli strati più superficiali, ma si è spinto in profondità, raggiungendo gli 800 metri. Per quanto riguarda le acque superficiali, negli ultimi 25 anni si è registrato un aumento di 1,5°C: un dato che potrebbe sembrare minimo, ma che in realtà è allarmante, poiché ha innescato un processo graduale di tropicalizzazione.

Infatti, dall’analisi emerge che tra il 2013 e il 2016 il riscaldamento è stato superiore a 0,4 °C, seguito da una leggera diminuzione e da un periodo stazionario negli anni successivi, per poi riprendere ad aumentare progressivamente dal 2021 fino al settembre 2024, quando ha raggiunto il suo massimo.

Nel report “Effetti del cambiamento climatico nel Mediterraneo: storie di un mare sempre più caldo”, il direttore del WWF Giuseppe Di Carlo, ha affermato: “Il Mediterraneo di oggi non è più quello di una volta. La sua tropicalizzazione avanza a pieno ritmo: il cambiamento climatico non è un fenomeno che ci interesserà in futuro, ma una realtà che scienziati, pescatori, sub, comunità costiere e turisti stanno sperimentando già oggi. Ecosistemi sani e una ricca biodiversità sono le nostre migliori difese naturali contro le conseguenze dei cambiamenti climatici”.

Questo riscaldamento anomalo non è privo di conseguenze: l’alterazione delle temperature marine sta infatti sconvolgendo gli equilibri dell’ecosistema mediterraneo. Specie tropicali si stanno spingendo sempre più a nord, mentre organismi autoctoni faticano ad adattarsi a condizioni sempre meno favorevoli. La biodiversità è a rischio e con essa l’intero ciclo vitale del mare, dalle microalghe ai grandi predatori. Ma quali sono gli effetti più evidenti di questo cambiamento?

Le conseguenze sull’ecosistema marino e la biodiversità:  il granchio blu

I principali effetti riguardano la perdita della biodiversità e profondi cambiamenti nell’ecosistema. Infatti, l’innalzamento delle temperature costringe le specie marine autoctone a migrare verso acque più fredde e profonde, con il rischio di scomparire definitivamente.

Negli ultimi anni, il granchio blu (Callinectes sapidus) si è imposto come una delle specie aliene invasive più problematiche nei nostri mari. Originario della costa atlantica americana, questo crostaceo si è diffuso rapidamente nelle acque italiane, trovando condizioni ambientali favorevoli alla sua proliferazione.

Il suo impatto è stato immediato e devastante: predatore vorace, si nutre di molluschi e piccoli pesci, mettendo in crisi le popolazioni di specie autoctone e alterando gli equilibri ecologici.

La pesca tradizionale ne ha risentito pesantemente, con conseguenze economiche rilevanti per le comunità costiere, soprattutto quelle che dipendono dalla raccolta di vongole e mitili, che sono tra le sue prede preferite.

Le autorità e i ricercatori stanno cercando soluzioni per contrastarne la diffusione, ma l’adattabilità e la capacità riproduttiva del granchio blu rendono la sfida particolarmente complessa.

Nel frattempo, alcune iniziative puntano a trasformare il problema in un’opportunità, promuovendone il consumo gastronomico come strategia di contenimento. Resta però chiaro che l’invasione del granchio blu rappresenta una delle minacce più serie alla biodiversità marina e all’economia ittica del nostro Paese.

In questo scenario, anche il Pinna nobilis, il più grande bivalve endemico del Mediterraneo, sta subendo un drammatico declino; negli ultimi anni, eventi di mortalità di massa hanno portato alla scomparsa dall’80% al 100% delle popolazioni in Spagna, Italia e altre aree del bacino. Questo mollusco non è solo un elemento chiave della biodiversità marina, ma rappresenta anche l’habitat di ben 146 specie diverse.

Parallelamente, il riscaldamento delle acque sta contribuendo all’innalzamento del livello del mare, che negli ultimi dieci anni è già aumentato di circa 5 cm. Se le emissioni di gas serra continueranno a crescere, si stima che entro il 2100 il livello potrebbe salire tra i 40 e i 120 cm, mettendo a rischio molte città costiere e aggravando l’erosione delle coste. Oltre a ciò, l’aumento delle temperature sta determinando una riduzione delle precipitazioni nei mesi più caldi, mentre gli eventi meteorologici estremi diventano sempre più intensi e localizzati.

Un altro fenomeno preoccupante è la gelatinizzazione del mare, ossia la proliferazione incontrollata delle meduse. Nelle acque meridionali del Mediterraneo, le fioriture di meduse sono sempre più frequenti e durature, complice il riscaldamento delle acque e la pesca eccessiva, che ha ridotto drasticamente le popolazioni di pesci che competono con le meduse per il cibo.

La posidonia

Le praterie di posidonia, fondamentali per la salute del Mediterraneo, sono anch’esse minacciate. Questi ecosistemi ospitano fino a 350 specie marine per ettaro e svolgono un ruolo cruciale nell’assorbimento della CO₂, immagazzinando fino al 42% delle emissioni dei Paesi mediterranei. Tuttavia, l’innalzamento del livello del mare e il riscaldamento delle acque stanno compromettendo la loro sopravvivenza, mentre specie aliene invasive, come la Caulerpa, un’alga tropicale capace di crescere fino a 3 cm al giorno, ne aggravano ulteriormente il declino.

Questi fenomeni dimostrano come il cambiamento climatico stia alterando profondamente gli ecosistemi marini, con effetti a catena sulla biodiversità, sull’economia e sulla qualità della vita delle comunità costiere.

Acidificazione del mare, cos’è?

Uno degli effetti più rilevanti del cambiamento climatico è l’acidificazione degli oceani, un fenomeno causato dall’aumento dell’anidride carbonica (CO₂) nell’atmosfera. Circa un terzo della CO₂ emessa dalle attività umane, infatti, viene assorbito dagli oceani, dove si dissolve nell’acqua e innesca reazioni chimiche che riducono il pH marino, rendendo l’ambiente più acido. Questo processo ha conseguenze negative per molti organismi marini, in particolare per coralli e molluschi, che in acque più acide faticano a costruire conchiglie e strutture protettive essenziali per la loro sopravvivenza.

Su questo tema, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), nel 2023 ha partecipato a una ricerca internazionale che ha identificato le zone più a rischio di acidificazione marina, sia oggi che in prospettiva futura.

“Abbiamo condotto un’analisi che ci ha consentito di identificare gli hotspot di acidificazione marina nel Mar Mediterraneo” spiega Donata Canu, prima ricercatrice della sezione di Oceanografia dell’OGS, che poi aggiunge: “Nell’epoca in cui viviamo, gli oceani globali sono stati già profondamente alterati dalle attività umane. Livelli crescenti di emissioni di gas serra, di cui il 25% è stato assorbito dagli oceani, hanno portato a una variazione del pH dell’acqua marina di circa il 30%”.

A partire da queste evidenze, i ricercatori si sono concentrati sia sui rischi per la biodiversità che sulle ricadute economiche per attività legate al mare come pesca e acquacoltura. I risultati dello studio mostrano come, alle condizioni attuali, non si riscontrano rischi legati alle attività di acquacoltura relative all’acidificazione, mentre negli scenari futuri, che prevedono un aumento dell’acidità delle acque, l’esposizione delle specie di interesse commerciale è decisamente sopra la soglia di rischio.

La campagna “Mare caldo” indaga su Portofino

Sempre nel 2023, la campagna “Mare caldo”, uno studio condotto dall’Università di Genova in collaborazione con Greenpeace, ha raccolto i dati e analizzato gli effetti catastrofici del cambiamento climatico in 12 punti della penisola, tra cui Portofino e Cinque Terre.

Dalle indagini è emerso che circa il 95-100% del pavimento marino tra i 15 e i 30 metri di profondità nell’Area marina protetta di Portofino era coperto di mucillagine, la quale, oltre a danneggiare la pesca, crea gravi rischi per la biodiversità. Questo materiale organico, infatti, forma uno strato gelatinoso che compromette tutte le specie che vivono a stretto contatto con il fondale.

“La mucillagine si forma in superficie, ma poi cade sul fondo per effetto della gravità, andando a ricoprire completamente gli organismi bentonici che vivono a stretto contatto con il substrato roccioso” spiega Monica Montefalcone, esperta di ecologia dell’Università di Genova.

E se le analisi hanno dimostrato che nelle poche aree protette, che ospitano una maggiore varietà di specie, la resilienza e lo stato di salute di queste ultime sono migliori, è evidente che dobbiamo fare di più per tutelare i nostri mari. L’obiettivo è proteggere il 30% dei nostri oceani entro il 2030, un traguardo ambizioso considerando che attualmente le aree marine protette in Italia non superano il 15% e che meno dell’1% dei mari italiani è soggetto a misure di tutela efficaci. Di più: appena lo 0,04% rientra nelle aree in cui è vietata qualsiasi attività, inclusa la pesca.

“Siamo molto lontani dall’obiettivo di protezione del mare che dobbiamo raggiungere entro la fine del decennio. Attualmente le aree marine protette (AMP) sono poche, troppo piccole e senza un sistema di gestione integrata. Quindi non solo servono più AMP, ma occorre che siano meglio gestite e più funzionali”, afferma Carlo Nike Bianchi, professore e ricercatore di Ecologia marina dell’Università di Genova.

Nel corso di questa sua recente spedizione nel Mar Mediterraneo, Greenpeace Italia ha documentato lo stato di salute di altre aree protette, come Bergeggi, e di aree non protette, come Gallinara, entrambe in provincia di Savona, per mettere in luce il ruolo cruciale delle prime nella conservazione del nostro mare.

Gli evidenti impatti antropici nei fondali di Gallinara confermano che le aree marine protette rappresentano il miglior strumento per tutelare la biodiversità marina. È dunque urgente aumentare il numero di queste aree protette e adottare tutte le misure necessarie per affrontare le sfide ambientali attraverso politiche di protezione e strategie di mitigazione del cambiamento climatico mirate a preservare la ricchezza naturale dei nostri mari.

Maya Bonaduce
5c del Liceo di Scienze Umane Duchessa di Galliera di Genova