Siamo tornate in presidio per reclamare a gran voce la liberazione dalle accuse di favoreggiamento all’immigrazione clandestina per Marjan Jamali e Amir Babai, sottoposti per altro a carcerazione preventiva da più di un anno. Oggi, 27 marzo, ribadiamo con fermezza il nostro sdegno verso il muro di leggi che lo Stato italiano ha alzato per trovare un capro espiatorio dietro chi in realtà fugge per ottenere protezione. Protezione che Marjan cercava per sé stessa e per il figlio di 8 anni, quando nell’ottobre 2023 sono arrivati sulle sponde di un mare non più (o forse mai) culla di civiltà, ma tomba per le speranze di chi sogna una vita migliore.

Nell’udienza dello scorso 24 marzo presso il Tribunale penale di Locri Marjan rende la sua testimonianza forte e chiara, ripercorrendo i motivi che l’hanno spinta a lasciare il teocratico Iran nel quale era esposta ai pericoli di un ex marito violento, a cui per la legge misogina iraniana spettava l’affidamento esclusivo del figlio al compimento dei suoi 8 anni. Racconta e dimostra di aver pagato 14 mila euro ai veri trafficanti (9mila per sé e 5000 per il figlio), entra nei dettagli di quel lungo viaggio in cui ha subito un tentativo di stupro, da quelle stesse persone che – per vendetta – l’hanno poi accusata di essere parte dell’equipaggio e che poi si sono resi irraggiungibili. Le accuse a Jamali si basano sulle dichiarazioni di soli tre passeggeri – su ben 102 – che appena sbarcati hanno sostenuto che la donna aveva il ruolo di raccogliere i cellulari prima della partenza.

Sulla base di questa sola testimonianza, per altro raccolta senza ulteriori approfondimenti dalle stesse persone che le hanno promesso ritorsioni, per la procura avrebbe svolto “mansioni meramente esecutive e di collaborazione nell’operazione coordinata da trafficanti attivi sul territorio turco”. Ma l’uomo che ha materialmente condotto la barca, l’egiziano Faruk chiamato in qualità di testimone e che ha già patteggiato la pena ha dichiarato in udienza che Marjan e Amir erano migranti come tutti gli altri e non c’entravano niente con l’organizzazione. Come se non bastasse, appena arrivata è stata separata dal figlio e arrestata senza che le venissero date spiegazioni. Lo ha potuto riabbracciare a distanza di 7 mesi nei quali è stata reclusa nel carcere di Reggio Calabria. Adesso Marjan si trova ai domiciliari e con l’obbligo di indossare il braccialetto elettronico, misure oppressive che chiediamo siano revocate in attesa della conclusione del processo prevista per il 28 maggio.

Altrettanto inspiegabile è la vicenda di Amir Babai, un uomo resosi doppiamente “colpevole”: sia di scappare da un regime oppressivo per costruirsi una vita migliore e sia di aver difeso Marjan, sulla barca, dal tentativo di violenza che stavano mettendo in atto proprio coloro che poi hanno accusato anche lui di essere uno scafista. Sono ormai più di 500 giorni che Babai sta scontando, recluso in carcere, una ingiusta, afflittiva ed ingiustificata misura cautelare di cui chiediamo l’immediata revoca.

Migrare non è un reato, l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione e il successivo decreto Cutro sono strumenti che non risolvono i flussi migratori, ma che li criminalizzano e fuorviano dalla ricerca dei veri colpevoli e trafficanti.

Comitato Free Marjan Jamali
Comitato OLTRE I CONFINI: Scafiste tutte

Aggiornamento: mentre il Tribunale di Locri ha rigettato la richiesta di modifica della misura cautelare, il Tribunale del Riesame a Reggio l’ha revocata, restituendo la libertà a Marjan.