Pubblichiamo il resoconto di Ilaria Salis in merito alla ispezione effettuata, nella qualità di parlamentare europea,  presso il carcere felsineo della Dozza: «L’elemento più rilevante – ha dichiarato la deputata – riguarda l’annunciato trasferimento di un gruppo di cosiddetti “giovani adulti”, ovvero ragazzi tra i 18 e i 25 anni provenienti da istituti minorili, i quali – stando a quanto dichiarato – dovrebbero restare solo temporaneamente all’interno del carcere “dei grandi”. Staremo a vedere – scrive la Salis».  Intanto è stato assicurato che «resteranno separati dal resto della popolazione detenuta, ma nei fatti sono stati collocati in un reparto isolato all’interno di una struttura che non è progettata per accoglierli. Insomma, una gabbia nella gabbia.»

Come hanno segnalato anche i detenuti adulti attraverso una presa di parola collettiva, questo trasferimento provoca un forte scompenso nella vita interna del carcere. Un centinaio di persone con pene lunghe e definitive è stato spostato nella sezione di Alta Sicurezza – da cui, a sua volta, i detenuti sono stati trasferiti all’istituto di Fossombrone – con il rischio concreto di una sospensione o interruzione delle attività trattamentali e riabilitative in corso.

L’intera vicenda è sintomatica della preoccupante involuzione in corso nel sistema della giustizia minorile italiana. Un tempo all’avanguardia in Europa per il ricorso limitato alla detenzione, oggi il nostro paese sta virando verso un approccio sempre più repressivo e carcero-centrico, anche nei confronti dei minori. Il Decreto Caivano, che, tra le cose, rende ostative le misure alternative per alcune tipologie di reati commessi da minori, rappresenta solo l’ultima, grave torsione in questa direzione.

In questo quadro, il razzismo sistemico appare in tutta la sua evidenza: tutti e nove i ragazzi trasferiti alla Dozza sono stranieri, così come lo è per la stragrande maggioranza l’intera popolazione minorile detenuta. I beceri populisti di destra, che, non perdendo mai occasione per soffiare sul fuoco del razzismo, parleranno di predisposizione culturale (o, nei casi peggiori, addirittura genetica) al crimine.

Ma la realtà è un’altra, ed è una realtà di classe. Questi ragazzi sono poveri, privi di reti di supporto sul territorio, spesso segnati dal trauma della migrazione. È più facile per loro scivolare nella marginalità e nella piccola criminalità. Ed è infinitamente più facile finire in carcere. A parità di reato, un ragazzo italiano di buona famiglia non ci metterà mai piede. E anche se dovesse entrarci, potete star certi che ne uscirà prima.

Chi vuole davvero occuparsi di sicurezza, giustizia e, soprattutto, tutela dei minori, dovrebbe fare l’esatto contrario di ciò che si sta facendo oggi. Non servono nuove carceri, né aumentare la repressione. Servono investimenti strutturali in percorsi di inclusione, in supporto materiale e psicologico, oggi drammaticamente sottofinanziati e spesso affidati alla buona volontà di associazioni, volontari e lavoratori del terzo settore, pagati una miseria.

Successivamente, ho visitato la sezione femminile, dove sono ristrette 87 donne. Come spesso accade nelle carceri italiane, le celle versano in condizioni fatiscenti: ambienti molto piccoli, muri scrostati, servizi igienici guasti.

Mi sono intrattenuta a chiacchierare con diverse donne e tutte loro, più o meno, mi hanno detto le stesse cose.  Le solite, purtroppo. L’accesso a cure mediche, agli educatori, al lavoro è estremamente complicato.

Per le donne straniere, uno degli aspetti più dolorosi è l’impossibilità di comunicare regolarmente con la propria famiglia nel paese d’origine. È successo anche a me, in Ungheria, e ricordo quanto male faceva.

Tra i vari problemi, ce n’è uno che emerge su tutti: il vitto. Le detenute lo definiscono disgustoso, scarso e, da qualche tempo, anche freddo. Ho chiesto spiegazioni e ho saputo che la cucina del reparto femminile è guasta da settembre: i pasti vengono preparati in quella maschile e poi trasportati. Ho atteso l’arrivo del carrello e ho potuto constatare di persona lo stato delle pietanze. Devo dar loro ragione.

Anche qui, le differenze di classe si fanno sentire: solo chi ha i mezzi per integrare con il sopravvitto può permettersi un’alimentazione decente. Le altre, le più povere, mangiano poco e male. Doppia punizione per loro.

Mi ha colpito, infine, la frase di una donna, pronunciata con una lucidità disarmante: “Il carcere è una scuola di delinquenza. Qui, per noi, non c’è alcuna riabilitazione possibile”. E in effetti, il tasso di recidiva supera il 70%.

Questa donna non aveva letto testi abolizionisti. Ma spesso basta vivere sulla propria pelle cosa significhi il carcere per maturare la consapevolezza che una società senza prigioni sarebbe una società migliore. Che esistono forme altre — più giuste, più umane, ma anche decisamente più efficaci — per affrontare i rapporti di ingiustizia. Oltre questa barbarie, chiamata prigione.

comunicato