È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.