Ella Keidar Greenberg ha annunciato oggi il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano e di prestare servizio nella guerra genocida in corso a Gaza ed è stata condannata a 30 giorni di carcere. Non è ancora chiaro se sarà collocata in un reparto maschile, femminile o separato.

Dichiarazione di Ella Keidar Greenberg: l’imperativo è rifiutare 

Mi chiamo Ella Keidar Greenberg, sono stata cresciuta come un uomo e un soldato. All’età di 14 anni ho fatto coming out come donna trans e ho rifiutato i dettami della società sul genere. Ora, a 18 anni, mi rifiuto di arruolarmi e respingo i dettami militaristi della società.

Poco dopo il coming out, ho trovato il Manifesto Comunista nella biblioteca di mia nonna. Ho trascorso i due anni successivi a leggere libri di filosofia politica e di teoria marxista. Attraverso la lettura ho sviluppato una comprensione più profonda della storia sanguinosa e del presente del luogo in cui vivo. Con il movimento di protesta contro il golpe giudiziario, si è manifestato un percorso che mi ha permesso di convertire la frustrazione che provavo in speranza e azione politica. Mi sono subito unita alla lotta contro l’occupazione come attivista e organizzatrice. Prima nel blocco anti-occupazione e nelle proteste settimanali in Kaplan street, poi nella Rete Mesarvot, nell’Unione della Gioventù Comunista, in Hadash (DFPE) e nel Partito Comunista.

Da allora l’attivismo è diventato il centro della mia vita: ho organizzato una protesta di massa contro la propaganda transfobica, ho protestato con gli attivisti palestinesi contro il furto di terra mentre i soldati ci sparavano granate stordenti e proiettili di gomma, ho bloccato strade, sono stata ferita dai poliziotti e dagli sgomberi violenti da parte della Magav (polizia di frontiera), ho organizzato una campagna di rifiuto di massa nell’ambito dei Giovani contro la dittatura e mi sono unita alla co-resistenza  e alle azioni di protezione dei palestinesi a Masafer Yatta e ora mi rifiuto di arruolarmi nell’esercito.

La ragione principale di questo atto è che il mio Paese sta commettendo un genocidio a Gaza. Centinaia di migliaia di persone sono state uccise dai bombardamenti, dalla distruzione intenzionale delle infrastrutture, dalla fame e dal fuoco indiscriminato. Milioni di persone sono state strappate dalle loro case e da allora continuano a vivere come sfollati. Questa è stata la realtà quotidiana di Gaza negli ultimi 18 mesi. Il tutto per una guerra che avrebbe dovuto riportare gli ostaggi a casa, ma che in pratica li abbandona. La guerra di annientamento è passata in Cisgiordania, con un’escalation di violenza dei coloni, sostenuti più che mai dall’esercito. Decine di villaggi, ripuliti etnicamente come se non fossero mai esistiti, e interi quartieri distrutti e spopolati come parte dell’operazione distruttiva a Jenin e Tulkarem. Ora che il governo è tornato alla sua campagna di distruzione a Gaza, si prevede che la situazione peggiori ancora.

In Israele stiamo assistendo a una persecuzione politica da parte della polizia nei confronti di attivisti di sinistra e palestinesi che non si vedeva dai tempi del governo militare del 1948-1966, ad arresti per dichiarazioni sui social media, per proteste e organizzazioni civili. C’è un abbandono sistematico e intenzionale della società araba da parte della criminalità organizzata omicida, 24 ostaggi vivi che aspettano ancora di tornare a casa dalle loro famiglie, una crisi economica terribile che colpisce in primo luogo i lavoratori, un aumento del 65% della violenza domestica, legato all’aumento del 40% delle armi da fuoco in mano ai civili. Inoltre, abbiamo assistito a un’impennata di violenza contro la comunità queer e a un contemporaneo taglio dei suoi bilanci governativi, e lo stesso colpo di stato giudiziario contro cui abbiamo bloccato le strade poco fa, sta diventando legge sotto il nostro naso. Questi non sono processi che avvengono separatamente dal genocidio a Gaza, ma sono parti dirette e immanenti degli effetti della guerra sulla società.

Affinché lo status quo continui a funzionare, è necessario che le persone svolgano i ruoli previsti dal sistema, come ingranaggi di una macchina ben oliata. Dobbiamo lavorare, arruolarci nell’esercito, uccidere, sposarci, mettere su famiglia e fare figli che continueranno a servire l’occupazione, il capitalismo e il patriarcato. Questi sistemi non sono solo il soldato che sta al posto di blocco, il capo che ci paga troppo poco o le persone che vietano la nostra autonomia di genere e medica, ma anche l’educazione a queste istituzioni, la somma di tutti i meccanismi sociali che ci trasformano in soggetti obbedienti del sistema.

Questa logica è ciò che le persone trans e gli obiettori di coscienza minano. Per questo facciamo così paura, perché il sistema esistente e la sua riproduzione sono assicurati se noi – le persone – restiamo disciplinati e obbedienti.

Ma l’obbedienza non ci porta altro che all’oblio. I decisori dell’esercito e del governo chiariscono più volte che non hanno alcun interesse nella stabilità dell’accordo di cessate il fuoco, nei nostri diritti o nella restituzione degli ostaggi. Il loro interesse nei nostri confronti si limita alla nostra funzione di carne da macello per l’industria dello sterminio e dell’espansione. I regimi oscuri e gli orrori che mettono in atto non crollano se i cittadini obbediscono alla legge e fanno quello che ci viene detto, sperando che qualcuno ai piani alti rinsavisca e capisca che tutto questo deve finire.

Di fronte a una realtà di sterminio di massa, di abbandono sistematico, di violazione dei diritti, di guerra – l’imperativo è il rifiuto. Non rimanere arrendevoli, riunirsi, organizzarsi, resistere.

Tra 40 anni, quando i nostri nipoti ci chiederanno cosa abbiamo fatto durante il genocidio di Gaza, durante il crollo del vecchio ordine, se ci siamo arresi o se abbiamo lottato, come risponderete? So cosa risponderò io: che ho scelto di resistere. Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi.