Benvenuti alla settima parte della rubrica “Contro il Pelecidio” che consiste nella pubblicazione, una volta a settimana, di una mini-intervista allo scrittore Luca Sciacchitano sui temi del suo ultimo interessantissimo saggio intitolato “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele” – edito da Multimage La casa editrice dei diritti umani – che senza filtri, con cognizione di causa ed una certa parresia, mette sotto accusa quello che è il colonialismo israeliano, il sionismo, l’occupazione belligerante di Israele in terre palestinese, i crimini di guerra, il terrificante sistema d’apartheid razzista e il “genocidio incrementale” messo in atto da ormai più di 70 anni, svelando apertamente le strategie colpevolizzanti della hasbara israeliana e della strumentalizzazione sionista della Shoah.
Nel libro fai riferimento al colonialismo culturale. Che cosa intendi?
Quando ci riferiamo al termine “colonialismo culturale” indichiamo la diffusione di usi, costumi, valori, stili di vita trasmessi a fini propagandistici attraverso strumenti di comunicazione di massa così da renderli familiari alle moltitudini. Gli strumenti possono essere variegati: dai film ai documentari, dalla pubblicità alle notizie giornalistiche. Concretamente, si tratta di un’operazione focalizzata nell’accentuare gli aspetti valoriali da esaltare, riscrivendo, cancellando o minimizzando tutte le problematicità che ogni narrazione culturale si porta dietro.
Per fare un esempio immediatamente comprensibile possiamo citare la diffusione su scala globale dell’American Way of Life, promossa dall’industria cinematografica americana nel mondo. Su questo fronte, Hollywood è stata la macchina da guerra culturale per eccellenza, in grado di diffondere negli ultimi decenni la magnificenza del sogno americano e oscurarne tutti gli aspetti più foschi. Ecco dunque che il vorace capitalismo liberale diventa un “American Dream” a portata di tutti. Ecco che lo sterminio dei nativi americani diventa eroica guerra di conquista della frontiera. Ecco che le guerre di invasione americana diventano omerici viaggi per l’instaurazione dei “nostri” valori a detrimento di quelli barbari in terre non occidentalizzate.
Una narrazione patriottica, dunque, in cui tendono a scomparire le sacche di povertà diffuse e la sperequazione sociale, la tragicità della competizione darwiniana, la ferocia del potere solipsista e individualista che tutto e tritura e schiaccia.
Anche l’ideologia sionista non è stato immune da queste operazioni di colonialismo culturale, benché la sua azione si sia focalizzata sulla diffusione del mito tragico della Shoah come strumento politico scudante. La perenne mnemonizzazione della tragedia novecentesca è diventata dunque una trincea dentro cui raggomitolarsi ogni qualvolta una critica politica veniva scagliata sul neonato stato ebraico.
Eppure non è stato sempre così.
Lo storico Norman Finkelstein, ebreo e figlio di sopravvissuti ad Auschwitz, ricorda che fino alla guerra arabo-israeliana del ’67, il tema dell’Olocausto fosse pressoché ignorato negli Stati Uniti. La Germania era stata liberata da pochi decenni e per il governo americano si trattava di un partner talmente strategico nel contrasto all’URSS che si evitò di rivangare il torbido per parecchi anni.
Sempre lo storico scrive: “In un convegno organizzato nel 1961 da «Commentary» sul tema «L’ebraismo e i giovani intellettuali», soltanto due dei trentuno partecipanti misero in rilievo il suo impatto (dell’Olocausto n.d.r.). Allo stesso modo, in una tavola rotonda organizzata nel medesimo anno dal periodico «Judaism» sul tema «La mia affermazione di ebraismo», alla quale parteciparono ventuno ebrei americani osservanti, l’argomento venne pressoché ignorato”.
Fu soltanto dopo la vittoria di Israele contro la coalizione araba del ’67 che il governo americano comprese l’importanza dello stato di Israele, prima minimizzata, nel fare da bastione alla minaccia araba. Da quel momento in poi, l’utilizzo del ricordo della Shoah per fomentare l’antisemitismo eterno (per dirla alla Arendt) iniziò a diventare pervasivo. E i numeri parlano chiaro: 257 documentari a tema olocausto realizzati dal 1940 ad oggi contro i 137 sulla seconda guerra mondiale nello stesso periodo.
Già qui possiamo vedere la sovraesposizione mediatica di un tema rispetto all’altro, non solo coevo ma anche di sottinsieme. Ai documentari sopra citati vanno aggiunte altre 240 pellicole cinematografiche, oltre 10.000 ricerche accademiche e ben 352 musei dedicati in tutto il mondo alla Shoah di cui solo 91 negli Stati Uniti.
Per avere qualche termine di paragone, esistono solamente 43 musei a tema schiavitù nel mondo e di questi ben 22 negli Stati Uniti, paese in cui la schiavitù è stato un fenomeno forgiante e perfino causa di guerra civile.
Questa pervicace volontà colonizzatrice del dolore porta con sé alcune conseguenze mnemoniche empiricamente verificabili: se prendiamo a prestito le cifre dello United States Holocaust Memorial Museum, possiamo enumerare tra le 15 e le 17 milioni di persone morte per mano nazista durante l’olocausto: ebrei, certo. Ma anche zingari, portatori di handicap, oppositori politici, omosessuali, massoni, prigionieri di guerra.
L’ovvio corollario a queste cifre è che la maggioranza delle vittime NON erano di estrazione ebrea. Eppure è interessante constatare che quando oggi noi parliamo di Olocausto, quando prendiamo visione di una qualsiasi testimonianza tra la vastissima produzione mediale sul tema, troppo spesso le altre vittime “scompaiono”. Restano a memoria soltanto i 6 milioni di ebrei come “evento unico e senza paragoni nella storia dell’umanità”.
Nulla questio sulla memoria ai caduti fra le fila del popolo ebraico, ma gli altri? Non meritano forse essi stessi uguale rispetto e cordoglio? Fermo restando la liceità del ricordo di una delle pagine più buie della storia, non si può non notare la conseguenza culturale di questo tipo di narrazione totalizzante, riassunta con lucidità da Finkelstein: “oggi in confronto alla Guerra Civile, molti più studenti (americani n.d.r.) sono in grado di collocare l’Olocausto nazista nel secolo giusto e in linea di massima di indicare il numero di vittime esatto. […] I sondaggi mostrano che sono molti di più gli americani che sanno identificare l’Olocausto piuttosto che Pearl Harbor o le bombe atomiche sul Giappone”.
Finkelstein si riferisce, ovviamente al numero di vittime ebraiche (6.000.000) perché perfino a molti di voi che state leggendo quelle 15.000.000 di vittime potrebbero risultare un dato inedito.
Eppure si tratta di numeri ufficiali, forniti dal più importante museo dell’olocausto del mondo.
La conclusione a cui arriva lo storico, e a cui può arriva chiunque scavi un po’ a fondo sull’argomento, è empiricamente verificabile: ogni qualvolta lo stato di Israele viene chiamato a rendere conto delle proprie nefandezze, “da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano”.
Che poi, altro non era, che lo scopo finale del colonialismo culturale di matrice sionista.
Link alle prime 50 pagine in pdf del libro “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.first-web.it/pelecidio1-50.pdf