Il 15 novembre 2024, il cooperante veneziano Alberto Trentini, 45 anni, è stato fermato e arrestato dai funzionari del Servizio amministrativo per l’identificazione, la migrazione e l’immigrazione (Saime) in Venezuela, dove era giunto il 17 ottobre per conto della ong Humanity & Inclusion, impegnata nell’assistenza umanitaria alle persone con disabilità. Non sono ancora chiari i motivi dell’arresto, quel che è certo è che Trentini è stato subito affidato alle autorità della Direzione generale del controspionaggio militare (Dgcim), con destinazione finale Caracas. A inizio febbraio una nota “non ufficiale” giunta dal Venezuela ha rassicurato sulle “buone condizioni” di Trentini, che soffre di ipertensione e necessita di farmaci specifici. Da allora sul cooperante è ripiombato il silenzio e neppure l’ambasciata italiana è riuscita a saperne di più. Nel frattempo più di 77.500 italiani, ed anche tanti stranieri, hanno firmato per la sua scarcerazione, inoltre è cominciato un digiuno a staffetta, con adesione online, tra cui ha partecipato anche il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. Una vicenda in parte simile a quella della giornalista Cecilia Sala, che finalmente sta avendo spazio presso l’opinione pubblica, nella speranza che possa avere lo stesso esito avuto da quella della giornalista, con il rientro in Italia di Alberto Trentini. A tal proposito, mercoledì 12 marzo alle 12:30, presso Palazzo Vecchio a Firenze, si è tenuta una conferenza stampa per presentare la risoluzione che chiede al Governo di intensificare gli sforzi diplomatici per ottenere informazioni ufficiali e la liberazione di Alberto. Un’iniziativa promossa da Caterina Arciprete, consigliera comunale e Capogruppo di AVS/Ecolò, nonché prima proponente di questa importante iniziativa.

Abbiamo raggiunto Caterina Arciprete per intervistarla.

Come nasce quest’importante iniziativa?

L’iniziativa nasce dalla volontà di dare voce a una vicenda che rischia di passare troppo sotto silenzio, nonostante riguardi un cittadino italiano privato della libertà in un Paese straniero mentre svolgeva con professionalità il suo lavoro di cooperante. Ricordiamo che la cooperazione internazionale è parte integrante della politica estera di un Paese e che – mai come in questo momento – queste persone sono veri e propri operatori di pace. Io ho studiato economia dello sviluppo qui a Firenze. Conosco bene il settore e la professionalità delle persone come Alberto. Penso che sia un atto dovuto fare tutto ciò che è in nostro potere per promuovere la liberazione di Alberto. Come rappresentante di Ecolò e capogruppo di AVS/Ecolò, quindi ho ritenuto fondamentale portare il caso in Consiglio Comunale. La risoluzione che ho presentato insieme al Partito Democratico e a Sinistra Progetto Comune mira a sollecitare il Governo italiano a intensificare gli sforzi diplomatici per ottenere informazioni ufficiali sulla sua detenzione e per arrivare alla sua liberazione. Sono felice che la risoluzione sia stata approvata dal Consiglio Comunale di Firenze all’unanimità.

Secondo lei, perché la vicenda di Alberto Trentini sta avendo molta meno visibilità rispetto a quella di Cecilia Sala?

Immagino che la notorietà della giornalista Cecilia Sala abbia giocato un ruolo importante. Sala è un’ottima giornalista con una vasta rete di colleghi e sostenitori nel mondo dell’informazione, mentre Alberto Trentini è un operatore umanitario che lavora spesso nell’ombra, senza la stessa visibilità mediatica. Inoltre, vi è una differenza nelle relazioni istituzionali tra l’Italia e i due Paesi coinvolti.

Detto ciò, credo che la storia di Alberto stia finalmente uscendo dall’invisibilità in cui è rimasta nei primi mesi. Dopo l’appello accorato della madre in televisione alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il caso ha ricevuto maggiore attenzione. Diversi Comuni hanno esposto lo striscione per la sua liberazione, da Bologna a Firenze fino a Venezia. È nata anche l’iniziativa del digiuno a staffetta, un gesto simbolico di solidarietà a cui hanno aderito il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, e la stessa Cecilia Sala. Il sostegno ha assunto anche forme digitali, con la campagna “Alberto Wall of Hope”, un muro virtuale su cui compaiono volti da tutto il mondo – dall’Italia all’Ecuador fino all’Etiopia – con un cartello che chiede la liberazione di Alberto. Parallelamente, la petizione su Change.org ha superato le 80.000 firme. A questi sforzi si è aggiunto il mondo della cooperazione internazionale. Durante la conferenza stampa al Comune di Firenze, due tra le principali ONG italiane, OXFAM e COSPE, hanno chiesto la liberazione di Alberto e si sono impegnate a mantenere alta l’attenzione sul caso.

Che differenze e similitudini vi sono tra queste due vicende?

Non sono un’esperta di geopolitica, quindi per me è difficile rispondere a questa domanda. Tuttavia, posso evidenziare alcune osservazioni. Entrambe le vicende riguardano cittadini italiani detenuti in Paesi stranieri con il rischio di violazioni dei loro diritti fondamentali. In entrambi i casi, i due detenuti sembrano essere coinvolti in dinamiche geopolitiche più grandi di loro, e dunque la loro detenzione appare più legata al contesto istituzionale che a eventuali reati personali.

Per quanto riguarda le differenze, nel caso di Cecilia Sala, le motivazioni della detenzione sono emerse rapidamente. L’Iran ha già utilizzato più volte la detenzione di cittadini italiani o con doppia cittadinanza come strumento di pressione diplomatica. Questo modus operandi è noto e collaudato, ed è stato applicato con diversi Paesi, spesso con successo. Agli occhi dell’opinione pubblica, il caso Sala sembrava più chiaro e, forse, più facilmente risolvibile.

Il caso di Alberto Trentini, invece, risulta più complesso e meno trasparente. Non abbiamo informazioni ufficiali che ci aiutino a comprendere appieno la situazione, e questo rende ancora più difficile esercitare pressioni efficaci per il suo rilascio.

Avete avuto notizie più recenti, anche dalla famiglia, riguardo alla situazione di Alberto Trentini?

Proprio oggi è stato confermato che si trova nel carcere El Rodeo I, a Guatire, vicino Caracas, in isolamento. Tuttavia, non ha ancora potuto parlare né con la madre, né con il Console italiano, e non sappiamo nulla delle sue condizioni di salute.

Dopo la liberazione di Cecilia Sala vi fu quella dell’ingegnere iraniano, di cui gli USA chiedevano l’estradizione, detenuto in Italia e poi rimandato in Iran. Non essendoci, in questo caso, un possibile “scambio”, che strategia dovrebbe usare, secondo lei, il governo italiano per riportare a casa Alberto?

Guardi, è difficile rispondere. Io non sono un’esperta e, quando mi sono rivolta a persone più competenti in materia, mi è stato detto che attualmente mancano informazioni cruciali. Senza elementi concreti, è difficile suggerire una strategia specifica al governo. Tuttavia, c’è un punto fondamentale che non può essere ignorato: Alberto Trentini ha diritto all’assistenza consolare. Questo diritto è sancito dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. A prescindere dall’accusa che gli è stata mossa, il nostro governo deve esercitare pressione diplomatica immediata per ottenere almeno questo, come primo passo per garantire la sua tutela.