Eppure ancora oggi l’Egitto rimane nella lista dei “paesi di origine sicuri”, secondo una legge approvata con un voto a larga maggioranza del Parlamento italiano. Finora però la violazione dei diritti umani nei paesi di transito con cui l’Italia stipulava accordi di vario genere, aveva assunto un rilievo prevalente politico, almeno a livello probatorio. Mentre a partire dal caso Almasri le questioni di politica interna e quelle di criminalità internazionale appaiono strettamente intrecciate con aspetti soggettivi e responsabilità individuali che possono essere oggetto di prova davanti ai tribunali.
Sulla base di “superiori interessi della Nazione”, o più semplicemente in nome della “difesa dei confini”, formula politica che già è valsa a garantire l’impunità davanti ai giudici, si tenta invece di giustificare trattamenti inumani e degradanti, che configurano anche crimini contro l’umanità. Il consenso elettorale raggiunto dal governo sembra premiare lo scambio tra le vite delle persone migranti ed il mantenimento di un livello di vita sempre più precario, ma che nell’immaginario collettivo si vede messo a rischio dall’arrivo di centinaia di migliaia di disperati che le milizie libiche potrebbero lanciare nel Mediterraneo. Per questa politica della paura si è legittimata una completa rimozione, dal discorso pubblico e dall’intervento della politica, degli orrori inimmaginabili subiti dalle persone migranti in Libia, documentati da tempo nei rapporti delle Nazioni Unite.
Già nel dicembre del 2017 il Tribunale permanente dei popoli, una istituzione non governativa promossa dalla Fondazione Basso e da decine di associazioni, denunciava i crimini contro l’umanità commessi in Libia e le complicità italiane ed europee, prima e dopo il Memorandum d’intesa firmato quell’anno da Gentiloni con il governo di Tripoli.
Successivamente i tribunali di Messina e di Milano condannavano torturatori libici arrestati in Italia, su denuncia di alcuni migranti che erano imbarcati con loro nella traversata verso le nostre coste. Si trattava di esponenti di quella stessa milizia che controllava il porto ed il centro di detenzione “governativo” di Zawia, il cui più noto esponente, il comandante Bija era stato in visita in Italia, arrivando a partecipare ad incontri presso il ministero dell’interno e la sede del Centro di coordinamento della Guardia costiera italiana. Ma ormai non potrà più testimoniare sui rapporti con le autorità italiane perché pochi mesi fa veniva ucciso a Tripoli, proprio al di fuori dell’ufficio dell’Accademia navale che dirigeva. Forse un segnale, che nessuno ha raccolto, di un cambiamento degli equilibri in Libia.
L’arresto più recente di Almasri in Italia, e soprattutto le numerose testimonianze che si raccoglieranno sul suo ruolo di carceriere e torturatore, ma anche di mediatore come rappresentante della milizia RADA che sostiene il governo Dbeibah a Tripoli, rappresentano un punto di svolta senza precedenti rispetto agli anni passati. Questa volta la complicità del governo italiano nelle torture inflitte ai migranti in Libia, pure nei cd. “centri governativi”, circostanza negata da Piantedosi nel processo Salvini/Open Arms, non si potrà nascondere, anche se in Italia si riuscirà a bloccare con il voto parlamentare i procedimenti penali che riguardano gli esponenti del governo e la stessa presidente del consiglio.
La responsabilità derivante dalla complicità in crimini contro l’umanità, che includono i reati di tortura, sequestro di persona, omicidio, oltre che di estorsione, potranno essere sanzionate a livello internazionale ed europeo, sia dal Tribunale Penale internazionale che allargherà il suo campo di indagine, dopo la mancata collaborazione delle autorità italiane, che dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo che potrebbe condannare l’Italia su ricorsi presentati dalle vittime che oggi chiedono giustizia in Italia, ma che domani, se i nostri giudici non riconosceranno le loro ragioni, potranno rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
La presidente Meloni non sbaglia a sbandierare fiducia nel possibile sostegno europeo in questo momento di difficoltà del governo italiano. La pressione del “sovranismo internazionale”, o gli esiti elettorali, in paesi decisivi come la Germania, potrebbero condizionare anche la Corte di Giustizia UE dove alcuni governi di destra si sono già schierati accanto all’Italia. Ma la sua tattica appare ogni giorno di più a breve termine. La auspicata esternalizzazione delle frontiere che l’Unione europea dovrebbe garantire con politiche comuni di deportazione, e usiamo a ragione questo termine, non solo nel senso di espulsione, e la creazione dei cd. hub per i rimpatri nei paesi terzi, richiederebbero una coesione europea sulle politiche della sicurezza e dell’immigrazione che in questo momento, al di là delle dichiarazioni opportunistiche, nei suoi concreti risvolti operativi rimane un miraggio.
Non sarà facile anticipare l’attuazione dei Regolamenti introdotti lo scorso anno con il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proprio a partire dalla individuazione di una lista comune di “paesi di origine sicuri”. Saranno proprio i partiti sovranisti, e nazionalisti, che sull’onda dell’internazionale nera alimentata dagli Stati Uniti, continuano a vincere elezioni sempre meno partecipate, che alla fine daranno il colpo di grazia al tentativo italiano di esternalizzare in Albania le procedure accelerate “in frontiera” per il riconoscimento del diritto di asilo. Dietro il ricorso strumentale a prassi amministrative, stabilite nel provvedimento di ratifica parlamentare e nelle SOP (procedure operative standard), in violazione della riserva di legge, che non garantiscono i diritti fondamentali della persona, appare destinato al fallimento il tentativo di legittimare accordi con governi, come quelli di Tripoli ( e Tunisi) che ormai non vedono più l’Italia tra i loro interlocutori privilegiati.
Il governo italiano e l’Unione europea dovranno rispondere in sede internazionale sul supporto al governo tunisino, non meno grave dei rapporti con le milizie libiche. Non si tratta più soltanto di “revocare” o “sospendere” gli accordi con la Libia, e non sarà certo il governo Meloni che lo farà. L’Unione europea del resto, a partire da una denuncia del Mediatore europeo, sta già indagando sulla attuazione del Memorandum con la Tunisia, che potrebbe essere sospeso da Bruxelles, per il mancato rispetto dei diritti umani, indipendentemente da una iniziativa del governo italiano.
Occorre tracciare nel medio periodo una nuova politica sulle migrazioni e l’asilo che contemperi le esigenze di sicurezza, autentiche, con la protezione dei diritti fondamentali delle persone migranti. E questo non si potrà certo ottenere nelle aule di giustizia. Dopo i disastri prodotti dalle politiche consociative dei precedenti governi di centrosinisrtra, sui rapporti con i libici in piena continuità con il centrodestra, ci vorranno anni per dare nuove motivazioni all’elettorato progressista che oggi si è ritirato nell’astensione. Ma intanto sarà nelle aule di giustizia, e nei territori a partire dai luoghi di sbarco, oggi da Bari, che si svilupperà la resistenza contro tutti gli atti del governo che continuano a mantenere quei livelli di cooperazione operativa, in mare e in territorio libico, che si rivela funzionale alla prosecuzione di ogni tipo di abusi, che continuano in un clima di generale impunità, dopo il rimpatrio “assistito” di Almasri a Tripoli con un volo di Stato, e soprattutto dopo una espulsione ministeriale che appare sempre più finalizzata a coprire responsabilità, piuttosto che a garantire sicurezza.