In occasione del graduale rilascio da parte di Hamas di alcuni ostaggi rapiti il 7 ottobre, diversi giornali nel commentare le relative immagini, hanno parlato di “show dell’organizzazione terroristica”. 

Oggi Domenico Quirico su La Stampa, con equilibrio, dopo aver ricordato Saddam e l’uso di questa arma di pressione, chiamiamola così, afferma che un giorno sarebbe giusto scrivere “una storia degli ostaggi, come sono stati usati, gettati via, come si può far rendere la loro disperazione, come prolifichino una politica degli ostaggi, una diplomazia degli ostaggi”. Merce umana utilizzata non solo da chi li ha sequestrati, ma anche, come nel caso in questione, da chi dovrebbe adoperarsi per la loro liberazione. 

E qui l’articolo sottolinea un aspetto centrale di questi mesi post 7 ottobre: Netanyahu ha sbandierato ai quattro venti che l’obiettivo dei massacri e della distruzione di Gaza era cancellare Hamas, fare tabula rasa della sua organizzazione. E invece sono proprio quelle immagini  “degli jihadisti che montano i palchi, fanno corona agli ostaggi sorridenti, danno loro una mano a raggiungere i mezzi della croce rossa, addirittura li difendono a spintoni da una folla furibonda che li vuole linciare”, ad evidenziare la sconfitta di Netanyahu. 

Ciò che sottolinea Quirico, uno dei pochi commentatori delle grandi testate che si differenza dal coro dei vari Mieli di turno,  rende alquanto discutibili, per usare un eufemismo, i titoloni dei quotidiani sul presunto show di Hamas. Viceversa si tratta di una rivendicazione di una presenza, potremmo chiamarla di sopravvivenza, nonostante più di 450 giorni di bombardamenti continui, che hanno provocato un genocidio, come ormai è stato definito anche da  organismi internazionali e autorevoli associazioni per i  diritti umani. Di questo si tratta, non di una “spettacolarizzazione” del rilascio. Si guarda il dito invece che la luna. 

Prima del 7 ottobre erano abbastanza attendibili le valutazioni di chi sottolineava la graduale perdita di consenso di Hamas, dopo il clamoroso consenso, massiccio e quasi unanime, alle elezioni del 2006, successo che naturalmente Usa e alleati hanno disconosciuto, perché la democrazia va bene quando è in sintonia con i loro interessi, viceversa diventa “scomoda” se a vincere sono soggetti non controllabili, seppure indubbiamente da avversare. Con la mattanza pianificata dal governo israeliano, con il largo consenso di buona parte del Paese, è presumibile che ci possa essere stata una inversione di tendenza, seppur il martirio a cui sono stati sottoposti i palestinesi, è anche conseguenza di un’azione, di un eccidio, rivelatosi una tragedia per la popolazione civile. Riprendendo una efficace definizione di Stefano Levi della Torre, tra Hamas e Israele c’è un “antagonismo collusivo”. Ma a parte le valutazioni su una eventuale ripresa dei consensi verso l’organizzazione jihadista, quello che è certo, lo hanno fatto notare anche alcune grandi testate giornalistiche statunitensi, è l’entrata di tanti giovani in Hamas dopo aver assistito ai massacri dei propri cari. 

Tornando agli ostaggi israeliani, se abbiamo letto le testimonianze riguardanti le sofferenze patite, se solo fisiche, ma anche psicologiche, che lasceranno ferite indelebili in chi le ha subite, nulla o poco si è detto di chi sul fronte palestinese è stato arrestato, sequestrato, dall’Idf e gettato in carcere. Per quello che ho letto è stato dato spazio solo alla deputata Khalida Jarrar, la cui foto prima della detenzione e dopo parla da sola. Così come varrebbe la pena far parlare alcuni dei tanti detenuti liberati in queste settimane.

A questo proposito, per concludere, mi sono tornate in mente i racconti che nel marzo del 2019 fecero alcuni componenti delle famiglie palestinesi in occasione di un viaggio di una settimana a Gerusalemme e Cisgiordania, con una delegazione dell’Associazione “Madri per Roma città aperta”, quando fummo ospiti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. 

Ci raccontarono che in tantissimi casi, chi veniva portato davanti ad un giudice di un tribunale israeliano, non veniva processato, ma la sua detenzione veniva protratta nel tempo, e periodicamente, dopo alcuni mesi, tornava nell’aula giudiziaria per sentirsi dire che doveva presentarsi più avanti, e  intanto se ne stava in carcere, anche per anni. Di fatto una condanna senza sentenza.

Questo nel Paese che ancora c’è chi definisce “l’unica democrazia in Medio Oriente”.