A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente… Ma… quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.

Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione

Prima di proseguire a illustrare i vari interventi, devo porre rimedio a una mia dimenticanza. Infatti nella prima parte del resoconto ho omesso di citare il quotidiano online “Anbamed” che, oltre a Radio Popolare e “Pressenza”, ha dato ampio spazio all’annuncio dell’incontro a  cura di Maiindifferenti – Voci ebraiche per la pace, tenutosi domenica 19 gennaio nel salone gremitissimo della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a Milano, e me ne scuso.

Dopo l’esposizione di Stefano Levi Della Torre è stato proposto un intermezzo, la lettura da parte di Elio de Capitani di Genesi 18, 17-33 – l’incontro di Abramo con Dio prima della distruzione di Sodoma e Gomorra –di Esodo 23,9 – dove si raccomanda il comportamento da tenere verso lo straniero, l’“altro” – e di vari brani dei Pirké Avot (Massime dei Padri)[1] per qualche assaggio di cultura ebraica, onde evitare che l’ebraismo resti schiacciato sui crimini di guerra d’Israele.

Alla fine l’attore ha introdotto Valentina Pisanty leggendo un estratto dall’ultimo libro della studiosa – Antisemita, una parola in ostaggio – titolo anche del suo contributo.

Semiologa, docente all’Università di Bergamo, autrice di svariati libri intorno alla memoria e alla Shoà, inizia il suo discorso affermando che fino a pochi decenni fa la parola “antisemita” aveva seguito l’evoluzione propria dei termini significativi della lingua, sottoposti al vaglio di esperti che ne rinegoziavano la definizione aggiornando il vocabolario. Il processo ha subito una brusca interruzione e svolta quando il governo israeliano ha deciso di arrogarsi la “nomina d’Israele a guardiano della memoria della Shoà” rivendicandone il possesso di copyright e lessico[2]. Nei primi anni 2000 inoltre, il governo israeliano ha decretato che antisemitismo e antisionismo coincidono, determinando così la quasi impossibilità di criticare le sue scelte politiche e assicurandosi l’immunità. Infine nel 2016, la liceità di questa operazione è stata sancita dalla definizione di antisemitismo elaborata dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), approvata da Europa e Stati Uniti. E così le istituzioni ebraiche, in Israele e Occidente, tanto più oggi avocano a sé il diritto di decidere che cosa si può dire e che cosa no. Mentre individuano i nemici negli studenti, i manifestanti a sostegno di Gaza e dei diritti dei palestinesi, amici di Israele e delle Comunità ebraiche sono diventati coloro che conservano nel proprio background l’armamentario tipico dell’antisemitismo vero, quello dei savi di Sion, ormai libero di scorrazzare fuori e dentro la rete perché se ne è persa la nozione autentica.

È poi la volta di Widad Tamimi. Giornalista e scrittrice, è cresciuta a Milano, ha studiato Diritto Internazionale a Londra e lavorato nei campi profughi. Il suo intervento s’intitola “Universalizzare la memoria”. La sua è una famiglia di profughi ebrei per parte materna, palestinesi per quella paterna; il padre, Khader Tamimi, è il presidente della Comunità palestinese di Lombardia e il marito è sloveno di Lubiana, dove lei oggi risiede.

Ci racconta tre storie: quella di Amalia Weiss, sorella del bisnonno; di Ivan e Irene Visentin, zii del marito, e quella del cugino palestinese Murad.

Amalia e il marito morirono entrambi ad Auschwitz perché, cittadini di Trieste, non vollero lasciare la loro città.

Nel ’42 gli zii del marito furono rinchiusi in due campi di concentramento allestiti dai fascisti in provincia di Udine, nel Comune di Gonars – attivo dal ’41 – poi sull’isoletta di Rab, e vi morirono di stenti.

Il cugino Murad a vent’anni, durante la prima Intifada a Hebron, aveva lanciato una pietra contro un carro armato. Venne preso e imprigionato in una cella di un metro per un metro dove restò tre mesi e da dove usciva solo per essere picchiato.

Erede e titolare di questa memoria tripartita, Widad ne ribadisce l’importanza soprattutto per chi è profugo, perché senza memoria non avrebbe identità. Si è dedicata molto all’archivio di famiglia, sia di quella ebraica sia di quella palestinese. Riguardo al primo, è andata in vari Paesi per ricostruire le storie che lo compongono e lo ha donato all’Holocaust Museum. Riguardo al secondo, ricostruirne le tappe è stato più difficile perché bisognava lavorare sulla memoria orale. Widad ha voluto ricostituire tali archivi per trasmetterli ai suoi figli e alle generazioni future, così che la storia di queste famiglie non venga cancellata e dispersa.

Conclude affermando che per lei la memoria è diventata un metodo, una bussola, una guida nella traiettoria della vita; infatti permette di unire i puntini fra passato e presente mostrando la via verso il futuro. Può farlo però solo se non la si circoscrive entro confini spaziotemporali, o si ascrive a monopolio dell’una o l’altra popolazione. Si augura perciò che venga istituito un giorno in cui si ricordino tutti i massacri così che, in ultima istanza, si arrivi a una memoria condivisa affiancata da un diritto universale e ci si possa riconoscere solo e semplicemente come esseri umani.

Il microfono passa poi a Gad Lerner, noto giornalista e conduttore televisivo e autore di vari libri. Il suo intervento è intitolato: “Se questo è un uomo ottant’anni dopo”.

Si ricollega subito alle parole di Widad per sottolineare l’esistenza di un filo della memoria che tiene insieme tanti intrecci, sfidando la logica delle appartenenze che la guerra vorrebbe imporre. Sono tempi di paradossi: Lerner prevede – così come è stato – che il 27 gennaio, nell’ottantesima ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz, il primo ministro israeliano non possa partecipare alla cerimonia perché contro di lui pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Basterebbe solo questa circostanza paradossale, sostiene, a giustificare il titolo dell’incontro che ha indotto qualcuno “a sollevare il sopracciglio”.

Come promette l’oggetto del suo intervento, ricorre ai testi di Primo Levi (Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati) per proporre al pubblico una corretta interpretazione del Giorno della Memoria.

Sembrerebbe che gli ebrei abbiano esaurito il credito loro concesso in quanto vittime della Shoà e molti cominciano a chiedersi se il mondo non sarebbe migliore senza Israele. Sono questi gli argomenti che Lerner affronta nei suoi incontri con un pubblico che vorrebbe misurare il grado d’indignazione verso i crimini a Gaza in base all’adozione o meno della parola “genocidio”, termine che Levi non usa quasi mai. Anche se considera la Shoà un unicum s’interroga invece, sin dalla prima stesura di Se questo è un uomo uscita nel 1947, sulla sua ripetibilità e comparabilità e nella conclusione dei Sommersi e i salvati lo scrive a chiare lettere: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo… può accadere e dappertutto”. “I nostri aguzzini erano fatti della nostra stessa stoffa. Erano esseri umani medi… Salvo eccezioni non erano mostri… ma erano stati educati male”. Non è intenzione di Lerner considerare Primo Levi un oracolo o i suoi testi paragonabili a quelli letti da Elio De Capitani. Nello stesso tempo, vuole spazzare il campo dalla santificazione ipocrita del suo pensiero, che ha spinto i leader dell’ebraismo italiano a lanciare una vera e propria diffida contro i Giovani Palestinesi perché ne hanno adottato una frase tratta dall’Appendice a Se questo è un uomo ripubblicato nel 1976: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché… le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”. Pur se i giovani avessero avuto le più perfide delle intenzioni, sostiene il giornalista, non si può certo impedirgli di usare parole che hanno imparato a scuola, né dir loro di cercarsi le citazioni altrove, lasciando Primo Levi alla memoria ebraica. Nei libri di Levi si trova una miriade di frasi e osservazioni memorabili, come quando racconta che nel gergo del campo venivano chiamati “mussulmani” (con due s) i sommersi, gli ammutoliti, i destinati alla morte. Lerner si chiede se Levi citi questo gergo solo per caso e se solo per caso fosse reticente a usare la parola “genocidio”. Infine, cita due frasi di Primo Levi intorno allo Stato d’’Israele. Nell’una ne parla come se la sua costituzione offrisse il “pretesto per un odio rinnovato”; nella seconda, incoraggia la diaspora a esercitare su Israele un’affettuosa e costante pressione critica. È un sollecito valido più che mai ora, in cui sentiamo di doverlo difendere per salvarlo dalla catastrofe morale in cui i suoi leader lo stanno facendo precipitare.

Gli ultimi due interventi sono di Anna Momigliano, giornalista vissuta per molti anni in Israele e Meron Rapoport in collegamento da Israele.

Anna Momigliano ha scritto per il “Washington Post” e “Haaretz”; collabora con il “New York Times” e il “Foreign Policy”.

Il suo intervento, “La mutazione d’Israele”, imbocca però una strada diversa. Infatti lo introduce parlando delle sue iniziali perplessità sul titolo dell’incontro, che rimanda a un legame immediato fra Shoà e i drammatici fatti di Gaza. Ma poi si è ricordata che un nesso storico anche più profondo della storia stessa collega la Shoà agli eventi che coinvolgono, dal ’48 a oggi, israeliani e palestinesi. Per sviluppare e concludere il suo ragionamento anche lei ricorre alle parole di un famoso intellettuale, quelle del palestinese Edward Said, che nel 1997 aveva pubblicato, sul quotidiano “Al-Ahram”, un articolo intitolato Basi per la coesistenza, in cui ragionava su Olocausto e Nakba:

Non riesco a concepire in alcun modo di a) non immaginare gli ebrei d’Israele come l’esito decisivo e davvero definitivo dell’Olocausto e b) non esigere da loro il riconoscimento di ciò che hanno fatto ai palestinesi durante e dopo il 1948… Chi in coscienza si sentirebbe di equiparare uno sterminio di massa con un’espropriazione di massa? Sarebbe folle anche solo tentarlo, eppure essi sono connessi, cosa che è molto diversa da essere equiparati.

Chiude la serie di interventi Meron Rapoport – nato a Tel Aviv –, editorialista di +972 Magazine, organo d’informazione indipendente israelo-palestinese, e codirettore di “Last Call”, sito di notizie in lingua ebraica che difende la democrazia, la giustizia sociale, la libertà di stampa e la resistenza all’occupazione. Inoltre, è tra i fondatori e leader del movimento israelopalestinese “A Land for All – Two States One Homeland” che promuove la creazione di due Stati indipendenti e un’unica patria con confini aperti, libertà di movimento e istituzioni comuni.

Per una strana coincidenza, ha tradotto di nuovo in ebraico – dopo la prima edizione di trent’anni fa – Se questo è un uomo finendo il lavoro proprio il 6 ottobre 2023; il libro è uscito nel marzo 2024. Cita il passaggio di Se questo è un uomo riportato nell’esergo in alto sotto il titolo dell’incontro: la sua pubblicazione in quel contesto assume un significato quasi profetico. Si avverte la sofferenza del giornalista nel ricordare, nei giorni che considera i più bui della sua vita, la barbarie di Hamas, le uccisioni, le case date alle fiamme, ma poi anche l’obliterazione, da parte degli ebrei d’Israele, di quanto era successo prima del 7 ottobre. Ha visto l’insensibilità, da parte del suo popolo, verso la sofferenza dei palestinesi di Gaza, con le migliaia di morti e la distruzione delle città. Ha visto il suo popolo perdere la propria umanità e appoggiare quasi con soddisfazione una politica di punizione etnica. E Israele che si considera erede e rappresentante del popolo ebraico vittima di genocidio ottant’anni fa, è ora accusato dal Tribunale dell’Aja[3] di atti genocidari. Ne ha provato vergogna, si sente responsabile di quanto accaduto per il semplice fatto di vivere nel Paese; ha provato anche paura per la sua sopravvivenza perché pensa che uno Stato non possa reggersi su dei crimini di guerra. Ricorda tuttavia che quando ancora si trovava immerso nel buio, aveva scritto un articolo che parafrasava una canzone di Leonard Cohen, quando è buio cercate le crepe, da lì uscirà la luce[4].

In ogni caso, il gruppo di cui fa parte non ha mai smesso d’incontrarsi per perseguire i suoi obiettivi. Ed è convinto che gli israeliani e i palestinesi troveranno il modo di convivere con uguali diritti nella loro patria comune.

Sono seguiti alcuni interventi dal pubblico che invito i lettori ad ascoltare su YouTube.

https://www.youtube.com/watch?v=Bz35-X2LSGo
Sito: https://www.maiindifferenti.it/

[1] Trattato della Mishnà (la parte più antica e nucleo centrale del Talmud, la Legge orale, trascritta nel II secolo e.v.) nel quale sono raccolti preziosi insegnamenti di carattere etico e morale.

[2] Espropriandone così d’imperio la popolazione ebraica che ne aveva subito, e ne subisce ancora, le conseguenze [nda].

[3] In realtà non Israele come Stato, bisogna precisarlo, ma alcuni suoi rappresentanti e militari

[4] Leonard Cohen, C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce.