Messa a disposizione sul sito di Medicina Democratica pubblichiamo un’importante intervista a Cristina Mangia, già presidente dell’Associazione Donne e Scienza ed insignita del premio “Wangari Maathai. Donne Pace e Ambiente”. L’intervista, in cui si parla delle esperienze di queste scienziate, è stata curata da Maurizio Portaluri: Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute1 è un libro scritto da due ricercatrici del CNR, Cristina Mangia e Sabrina Presto che propone 10 biografie di donne che hanno permesso alla scienza, con lotte ardue, di fare degli importanti passi avanti. Si pensi alla consapevolezza della nocività delle radiazioni ionizzanti per gli embrioni in gravidanza (Alice Stewart) o del limite dello sviluppo (Donella Meadows)accì
Nella prefazione Sara Sesti scrive che si tratta di un libro che può «scuotere le coscienze e illuminare le menti». Perché questo, c’entra il fatto che si tratta di esempi di donne?
Non credo che il punto sia semplicemente il fatto che parliamo di donne. Anche molti uomini hanno saputo scuotere le coscienze e illuminare le menti. Penso, ad esempio, a Giulio Maccacaro, che ha lasciato un segno profondo nel campo dell’ambiente e della salute pubblica. Ma se sono le donne a portare visioni controcorrente in un campo come quello della scienza in cui non eravamo previste, l’effetto è forse maggiore a causa dei pregiudizi di cui siamo state vittime.
Nello scrivere di donne, io e Sabrina Presto volevamo partire dalla nostra posizione e raccontare di scienziate in cui poterci riconoscere, che condividessero quella visione della scienza che guida il nostro lavoro quotidiano. Ancora oggi, persiste un racconto dominante di una scienza “oggettiva”, dove lo scienziato sembra privo di un ruolo sociale, chiamato unicamente a svolgere esperimenti, elaborare teorie e presentare dati in modo asettico.
Per noi, però, la scienza non è né neutrale né distaccata dal contesto in cui opera. E allora, invece di sentirci fuori posto noi rispetto a questa narrazione, abbiamo voluto dare voce a scienziate che incarnano un’idea di scienza profondamente radicata nella società. Scienziate che inseguono ideali e passioni nel loro fare ricerca, che scelgono con consapevolezza da che parte stare, sia che si tratti di ricerca militare, di lotta per la pace, del lavoro in fabbrica o della salvaguardia del pianeta. Molte di queste donne sono state relegate ai margini spesso per il fatto di essere donne e per di più controcorrente.
Eppure, come ci insegna Bell Hooks nel suo “Elogio del margine”, è proprio da quei margini che queste scienziate hanno creato spazi per guardare il centro con occhi diversi portando prospettive nuove e facendo fare alla scienza notevoli passi avanti. In un mondo come quello di oggi attraversato da crisi sempre più profonde, abbiamo bisogno proprio di queste nuove prospettive e narrazioni capaci di intrecciare fatti, dati e teorie con valori, passioni ed emozioni. Proprio quelle emozioni, quel sentirsi in relazione e quel radicamento a terra, che un tempo sono stati usati come argomenti per escludere le donne dal pensiero astratto e dalla ricerca scientifica e che oggi, invece, potrebbero rivelarsi fondamentali per ripensare il nostro modo di fare scienza verso un mondo più sostenibile.
Sei stata insignita del premio «Wangari Maathai. Donne Pace e Ambiente» intitolato ad una donna africana che, forse, più delle altre ha patito il pregiudizio antifemminile. C’è qualche scienziata tra quelle del libro con cui hai simpatizzato di più?
Rispondere a questa domanda non è semplice, perché sono affezionata un po’ a tutte le scienziate di cui parliamo, per motivi diversi. Alcune sono particolarmente vicine alle mie attività: penso ad Alice Hamilton, che si è dedicata alla medicina ambientale e occupazionale con un approccio “dal basso”, lavorando direttamente sul campo. Oppure a Beverly Paigen, con le sue ricerche partecipative nei territori contaminati, affrontando resistenze e critiche, o ancora ad Alice Stewart, che ha studiato gli effetti delle radiazioni sulla salute in un contesto dominato da grandi interessi.
Sono donne che hanno affrontato domande simili a quelle che mi sono posta anch’io, lavorando su progetti di contaminazione ambientale in luoghi come Brindisi, Taranto, Manfredonia e in altre parti d’Italia, affrontando talvolta le stesse difficoltà e opposizioni. Sono molto affezionata anche a Katsuko Saruhashi, per il suo impegno nel sottolineare la responsabilità della scienza di fronte a scelte cruciali, come quelle legate alla corsa agli armamenti. Altre scienziate, invece, mi hanno aiutato ad ampliare la visione del mondo: penso a Lynn Margulis, che ha sfidato il paradigma evolutivo basato sulla competizione, o a Suzanne Simard, che ha cambiato radicalmente il mio modo di guardare il mondo delle piante e le loro interconnessioni. Per non parlare di Wangari Maathai, donna, scienziata e appartenente al Sud globale, che ci ha mostrato quanto siano profondamente intrecciati giustizia ambientale, emancipazione femminile e modelli di sviluppo sostenibile. A Donella Meadows invece devo quel senso di autorizzazione a dare spazio all’immaginazione ad avere una visione più ampia nel fare scienza quotidianamente verso quel mondo più sostenibile che un po’ tutti e tutte vogliamo.
In tutte le protagoniste del libro emerge che la scienza non è «neutrale» ma risente dei punti di vista, degli interessi che la interpellano e anche del genere dei ricercatori/ricercatrici. Quanto è importante questa consapevolezza?
Questa consapevolezza è fondamentale, perché permette di riconoscere che la scienza non è un sapere avulso dalla società, ma un’attività umana intrinsecamente legata alle soggettività, agli interessi e ai valori di chi la pratica. Comprendere che i ricercatori e le ricercatrici portano con sé le loro esperienze, il loro punto di vista e il loro contesto sociale significa restituire trasparenza al processo scientifico e assumersi la responsabilità delle scelte che lo guidano. Anche se la scienza è un sapere collettivo, le decisioni – come i temi da studiare o le applicazioni da privilegiare – sono il frutto di scelte individuali, come ci insegna la giapponese KatsukoSaruhashi.
Questa consapevolezza ci spinge a riflettere su chi pone le domande alla scienza, chi decide dove investire le risorse e quali obiettivi si perseguono, mettendo in evidenza il ruolo che la diversità e le prospettive personali giocano nel plasmare il sapere scientifico. Inoltre, riconoscere l’influenza del genere nella ricerca non significa solo notare le differenze di accesso o trattamento tra uomini e donne nel mondo scientifico, ma anche interrogarsi su come prospettive diverse possano arricchire la scienza stessa, aprendo nuove strade e formulando domande che altrimenti potrebbero rimanere inascoltate. In questo senso, la consapevolezza della non neutralità della scienza non solo rende più trasparente il discorso scientifico, ma può anche contribuire a costruire una ricerca più aperta e capace di affrontare meglio le complessità del mondo in cui viviamo.
La scienza sembra conseguire maggiori scoperte quando si interessa di strumenti di guerra o aerospaziali. È vero, cosa può orientare la scienza verso la pace?
L’avanzamento della ricerca in un determinato campo dipende in larga misura dai finanziamenti disponibili: più si investe, maggiore è la probabilità di ottenere innovazioni o scoperte. Per orientare la scienza verso la pace, un primo passo fondamentale sarebbe decostruire la narrazione che considera la scienza neutrale, anche quando è coinvolta nella creazione di strumenti di guerra, e sposta la responsabilità dell’utilizzo di quegli strumenti ad altri.
Questa presunta neutralità spesso deresponsabilizza chi lavora nel settore scientifico, alimentando la convinzione, condivisa da molti ricercatori e ricercatrici che “se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. Questa decostruzione dovrebbe partire dall’università, dove le discipline scientifiche sono spesso insegnate in modo decontestualizzato, ignorando le implicazioni delle scoperte.
Ma il cambiamento non può avvenire solo dall’interno. È altrettanto importante che cambino le domande poste alla scienza dalla politica e dalla società Quando intervengo nelle scuole, ad esempio, parlo spesso dei finanziamenti destinati ai diversi settori di ricerca nei programmi quadro europei. Chiedo ai e alle partecipanti dove investirebbero maggiormente le risorse e poi confronto le loro risposte con la realtà. È interessante notare il divario: la maggior parte delle persone pensa che si dovrebbe investire soprattutto in salute o sull’ambiente, mentre i finanziamenti maggiori sono nel settore della ricerca spaziale. Questo confronto aiuta a riflettere su come le priorità della ricerca siano decise a priori e possano, quindi, essere ridefinite, magari coinvolgendo più attivamente la società nel decidere la direzione della scienza.
Quando avete pensato a questo libro, quanto ha influito l’intento didattico, cioè il target degli/lle studenti/esse? Mi riferisco ad esempio ai QR code di approfondimento cosparsi in tutto il libro.
L’obiettivo di questo libro era quello di raggiungere un pubblico ampio, non specialistico che includesse anche studenti e studentesse. Abbiamo cercato di rendere quanto più possibile i temi scientifici trattati accessibili, provando a suscitare curiosità e magari desiderio di approfondire attraverso materiali aggiuntivi.
I QR code inseriti nel testo rispondono proprio a questa esigenza: permettono di esplorare contenuti extra, conoscere meglio le scienziate attraverso momenti della loro vita, interviste o dettagli sulle loro ricerche. È stata una scelta per valorizzare storie già di per sé molto ricche, favorendo un approccio più interattivo e coinvolgente, ma sempre con l’intento di rendere il libro uno strumento utile e accessibile per tutti.
C’è una postfazione a cura di una donna di teatro, Maria Eugenia D’Aquino. Tu e Sabrina Presto avete realizzato anche uno spettacolo teatrale con lo stesso titolo. Si tratta di una maggiore fiducia in quest’altro tipo di espressione culturale rispetto o alla scrittura o che cosa?
Come ricercatrici su temi ambientali e di salute pubblica, abbiamo capito che la comunicazione su questi argomenti necessita di linguaggi e narrazioni innovative, capaci di andare oltre la semplice esposizione di dati, risultati scientifici o esperimenti. Lo storytelling si rivela uno strumento potente per mettere insieme fatti scientifici, i contesti in cui questi si sviluppano ma anche i valori, le passioni che muovono le persone che fanno ricerca.
Di fronte all’urgenza delle crisi e alle disuguaglianze che esse generano, le storie possono aprire nuove prospettive, ispirarci aiutandoci a immaginare modi alternativi di vivere il nostro ruolo e a perseguire una visione di un mondo migliore. Sia il teatro che la letteratura hanno questa capacità di trasformare temi complessi in esperienze accessibili e coinvolgenti, unendo ragione ed emozione, in un equilibrio tra logos e pathos.
Le due espressioni culturali lo fanno in modo diverso: il libro offre un’immersione più personale e intima in cui ti dai il tempo di leggere, rileggere e riflettere. Il teatro, invece, è un’esperienza collettiva, capace di stimolare il dialogo pubblico su questioni cruciali, favorendo una discussione e un impatto immediato. Sono diverse ma per noi entrambe appassionanti.
Segnaliamo che il prossimo 28.gennaio a Milano (ore 15.00) Cristina Mangia sarà presente all’evento pubblico attorno al libro di cui è coautrice assieme con Sabrina Presto.
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