Sembrano lontanissimi gli anni in cui, con l’arrivo della pandemia, il nostro Paese aveva dovuto fare i conti con i disastrosi risultati delle politiche liberiste, capaci di far deragliare quello che fino agli anni ’80 del secolo scorso era uno dei migliori servizi sanitari del mondo.
Fioccarono i mea culpa in quei mesi scanditi da contagi, decessi, restrizioni, e si sprecarono le lodi al personale medico e sanitario, costretto a lavorare oltre ogni limite di tollerabilità.
Ma chi si aspettava una drastica inversione di rotta si è trovato di fronte la nuova filosofia draghiana della ripresa e resilienza. Ovvero, si ricomincia da dove si era partiti e a tutte e tutti è richiesto un adattamento patriottico.
I risultati sono di nuovo evidenti e li illustra il CNEL nella Relazione 2024 sui servizi pubblici: sono 4,5 milioni le persone che nel nostro Paese hanno rinunciato a curarsi per problemi economici, lunghe liste d’attesa o difficoltà a raggiungere i luoghi di erogazione del servizio.
Si tratta del 7,6% della popolazione italiana, in netto aumento rispetto agli anni pre-pandemia (6,3% nel 2019).
La spesa pubblica in sanità continua ad essere una delle più basse in Europa (75,6% rispetto alla media europea) e comporta il contraltare di una spesa privata per le persone che ha superato i 40 miliardi. Il definanziamento del pubblico costituisce una spinta potentissima alla privatizzazione, che ha ormai raggiunto il 27,1% dell’insieme delle attività di ricovero.
C’è quindi un primo problema -enorme- di risorse da mettere in campo per tornare ad avere un servizio sanitario pubblico e universale, distrutto da decenni di politiche liberiste messe in campo da tutti i governi di qualsiasi colore.
Tuttavia, anche per chi nel centro-sinistra sta facendo qualche timida autocritica, c’è un’ulteriore questione da affrontare: il problema non è solo tornare a garantire risorse adeguate al servizio sanitario (altro che 5% del Pil nella spesa in armamenti, come invoca il tycoon statunitense!), bensì quello di decidere dove quelle risorse debbano essere indirizzate.
Tutti, a partire dai privati che operano in sanità, sono infatti per l’aumento della spesa pubblica, perché significa maggiori profitti per gli azionisti delle lobby finanziarie che la gestiscono.
Se si vuole cambiare rotta, bisogna che la spesa pubblica sia rivolta solo ed esclusivamente ad un grande piano di assunzioni di personale medico e infermieristico.
È questo il versante che separa davvero chi vuole un servizio sanitario pubblico e che si indigna quando è all’opposizione ma diventa compatibile quando è al governo. Perché vuol dire disobbedire alle politiche di austerità imposte dalla Ue ed eliminare tutte le restrizioni all’assunzione di personale, nel nome di un diritto che dev’essere universalmente riconosciuto. D’altronde, anche qui i dati parlano chiaro: nel periodo 2012-2023 il capitolo di spesa sanitaria relativo ai redditi da lavoro dipendente è stato quello maggiormente sacrificato, passando dal 33,5% della spesa complessiva del 2012 al 30,6% del 2023, con una riduzione di 28 mld.
Redditi sempre più bassi, carichi di lavoro sempre più pesanti, carenza di personale hanno inoltre provocato la progressiva fuga dal servizio pubblico, con l’esplosione del fenomeno dei “gettonisti”, ovvero l’incarico a personale medico-infermieristico attraverso le agenzie di somministrazione di lavoro e le cooperative.
Il fatto è che pubblico e privato non sono due modalità di gestione rivolte a perseguire lo stesso obiettivo, bensì due concezioni radicalmente alternative della società. Chissà se anche a sinistra prima o poi se ne accorgono.
(articolo pubblicato su il manifesto del 11 gennaio 2025 per la rubrica Nuova Finanza Pubblica)
Sanità: le infinite vie della privatizzazione – ATTAC Italia