Approfittiamo delle vacanze natalizie, interrompiamo lavori e studio per venire in Bulgaria. Dopo 40 ore di viaggio e 12 ore fermi in Croazia per via di un ingorgo epico, a poche ore dal nostro arrivo riceviamo una richiesta di soccorso. E’ il 24 dicembre pomeriggio. Tre ragazzi marocchini sono stremati nel bosco, uno è ormai semi-incosciente e in iniziale stato di ipotermia. Le temperature sono glaciali, si congela anche indossando vestiti tecnici e tute da sci. In 15 minuti prepariamo cibo, vestiti, acqua, tè caldo, mantelline termiche e borsa di primo soccorso. Usciamo da casa.

Facciamo lunghi giri in strade sconnesse e a tratti pericolose. L’intento è evitare di essere bloccati dalla polizia di confine, che nella migliore delle ipotesi ci fermerebbe per ore facendoci perdere tempo prezioso o ci impedirebbe di recarci sul posto (questo accadrà due giorni dopo, causando la morte di almeno tre adolescenti).

I tre ragazzi non comunicano più con il cellulare. La batteria deve essersi esaurita. Arriviamo sul posto senza essere fermati né seguiti. E’ già un successo.

Troviamo rapidamente i tre ragazzi: uno è in condizioni gravi, gli altri due sembrano stare meglio.  C’è il terrore nei loro occhi quando diciamo che per chiamare l’ambulanza e salvare il loro amico arriverà sicuramente la polizia bulgara. Ci vuole molto tempo per rassicurarli che, grazie alla nostra presenza, non verranno picchiati, ma condotti in un centro di detenzione per due settimane e poi in un campo aperto, dove sarà loro possibile chiedere asilo in Bulgaria.

A seguito del nostro intervento, il ragazzo in situazione critica si stabilizza lentamente e inizia ad essere cosciente. 20 minuti dopo la nostra chiamata al 112, arriva la polizia di confine.

Dopo aver urlato e intimidito i presenti, ci viene chiesto di andare verso la loro auto. Lì, aspettiamo per tre ore sotto pioggia e neve: i tre ragazzi sono esausti e assiderati, faticano a camminare, scarpe e giacche sono zuppi d’acqua. Ci chiedono insistentemente di non lasciarli da soli con la polizia. Sono ancora molto spaventati.

Chiediamo alla polizia di confine se almeno il ragazzo in condizioni più critiche possa ripararsi nella loro macchina. Non trema per il freddo, sembrano quasi convulsioni. Il poliziotto ci risponde sorridendo che non fa freddo e ci provoca dicendo che se ci teniamo possiamo dargli una delle giacche che stiamo indossando.

Un agente cerca di intimidirci chiedendo i passaporti, che come sappiamo non sono necessari. Le carte d’identità verranno richieste più volte durante le successive tre ore. Dopo una lunga attesa finalmente arriva un’ambulanza e fa un rapido controllo medico a tutti, ma se ne va presto vuota. Durante le tre ore di attesa, il ragazzo più in difficoltà si lamenta ad alta voce e ripetutamente; contrae il volto in espressioni di dolore intenso: ha i piedi piagati e congelati, quindi glieli puliamo, disinfettiamo e mettiamo delle bende prima di indossare calzini asciutti. Due di noi per ore gli stanno fisicamente attorno, abbracciandolo e cercando di non far scendere la sua temperatura. Le barrette energetiche vengono distribuite più volte. I telefoni dei tre ragazzi vengono presi dalla polizia di confine.

Dopo lunghe ore di attesa, tensione e gelo un ufficiale della polizia ci dice che saremo arrestati e che dobbiamo consegnare i telefoni. Diciamo che glieli daremo solo quando saremo ufficialmente arrestati e riceveremo i documenti relativi. Per il momento possiamo continuare ad usarli.

Per ultima arriva una terza auto della polizia di confine con un agente presentato come ‘il capo’. Ci comunica che saremo in stato di arresto per 24 ore. Perquisiscono a fondo la nostra auto senza trovare nulla di interessante. Due di noi vengono ammanettati. Condotti alla stazione di polizia di Malko Tarnovo veniamo reclusi in una stanza spoglia, molto sporca e con la finestra senza infissi e quindi impossibile da chiudere.

Due di noi vengono interrogati, ma non ci viene rilasciato nessun verbale. Vogliono sapere chi ci dà le informazioni, se siamo un’organizzazione e molte altre cose. Le condiscono con intimidazioni tipo: “Qui in Bulgaria sappiamo come far tornare la memoria”, minacce di arresti per traffico illegale di migranti e provocazioni becere tipo: “Voi aiutate? Bene, aiuta me, dammi cibo, dammi dell’acqua ora!” oppure: “Voglio una macchina, perché non mi regalate una macchina?”. Ci chiedono di lasciare le impronte digitali e la foto segnaletica, ma ci rifiutiamo. Il fatto che non ci abbiano obbligato e che usciremo da quella caserma senza averle date ci fa pensare che sia l’ennesimo abuso di un potere esecutivo sempre più indisciplinato alla legge (oltre che, neanche a dirlo, alla giustizia).

Cerchiamo di dormire per terra e su sedie puzzolenti. Quando chiediamo di andare in bagno ci portano in un sotterraneo. C’è un largo corridoio buio e spoglio con ai lati una decina di lastre di ferro chiuse con pesanti lucchetti. Capiamo solo dopo che, verosimilmente, sono i luoghi dove vengono reclusi i migranti. Le ‘porte’ ci colpiscono perché non hanno una maniglia, né uno spioncino, solo una lastra pesante di metallo leggermente convessa. Cerchiamo di allontanare il pensiero di quello che può accadere in quei luoghi quando non ci sono testimoni.

Arrivati al fondo del corridoio il poliziotto fa un sorriso e ci indica una porta. Aperta, troviamo uno sgabuzzino mefitico con piscio e merda ovunque. Un secchio a lato del WC rotto che tracima di carta e fazzoletti sporchi pieni di feci. Quell’espressione sul volto del poliziotto stona proprio, è la seconda volta che sorridono facendo qualcosa di crudele.

Tornando dal bagno siamo ‘felici’ di vedere i tre ragazzi marocchini spaventati, infreddoliti ma nella stessa stazione di polizia. Siamo ormai praticamente certi siano ‘salvi’, che ristabiliti potranno fare della loro vita quello che vorranno e quello che Stati-nazione e capitalismo gli permetteranno. Il sogno di uno di loro è arrivare a Torino a Porta Palazzo e lavorare con lo zio che fa il macellaio. Anche in uno stato di semi incoscienza, nella foresta, gli si illuminava il volto quando ci mimava le corna delle mucche e ne imitava il verso.

Al mattino veniamo liberati; ci chiedono di firmare dei fogli in bulgaro, ma ci rifiutiamo. Siamo abbastanza sicuri di aver salvato stanotte tre persone e di aver dovuto fare un po’ di galera per questo. Oggi, in Europa, va così. Siamo sereni.

Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino