Il Direttivo del Wwf Forlì-Cesena esprime perplessità e insoddisfazione da quanto emerso dalla 2^ Commissione Consiliare del 7 gennaio scorso avente ad oggetto l’aggiornamento sui lavori di ricostruzione post alluvione 2023.
Le parole del sindaco Lattuca e dell’ing. Sara Vannoni, responsabile dell’Ufficio Sicurezza territoriale e Protezione civile Forlì-Cesena, risultano insoddisfacenti e deludenti.
Le azioni da intraprendere sono molteplici ma il concetto ispiratore dovrebbe essere quello di recuperare innanzitutto, ovunque possibile, spazio per i fiumi, dai tratti collinari e montani sino alla pianura dove spesso scorrono tra argini artificiali, ed espandere il limite fluviale caratterizzato dalle sponde.
Tra gli interventi citati si parla invece di aumentare le quote di sommità degli argini [lungo il fiume Savio, ndr], della costruzione di muri idraulici in cemento armato per il contenimento degli argini, e dell’abbassamento delle golene del fiume (con abbassamento medio di 50 cm nel tratto cittadino) per aumentare la sezione di deflusso del corso d’acqua. Tutte operazioni non lungimiranti e che aggravano il processo di canalizzazione innaturale già in atto da decenni, il quale porta all’aumento della velocità della corrente e dell’incisione ed erosione degli alvei e ad una minor espansione e minor ricarica delle falde acquifere, che si alimentano attraverso il contatto idraulico diretto con il fiume sovrastante.
Sul fiume si vogliono continuare a costruire argini, sempre più alti, come difesa passiva che riduce ulteriormente la sezione idraulica. Le sezioni di questi fiumi non sono più in grado di fare defluire le grandi quantità di acqua che, proprio per la forte velocità, li sormonteranno. E il territorio, fortemente cementificato e antropizzato, in gran parte impermeabilizzato, non è più in grado di assorbire le precipitazioni che scorrono veloci verso il fiume. Precipitazioni che come sappiamo stanno prospettandosi sempre più frequenti e concentrate tutte in un breve tempo ristretto.
In una tale condizione di criticità, boschi e vegetazione riparia, rappresentano una fondamentale difesa idraulica, in quanto sono in grado di rallentare la corrente e trattenere il terreno con le radici: è un controsenso quindi tagliare gli alberi vicino agli argini, come è stato fatto di recente.
Durante la passeggiata di sabato 21 dicembre la cittadinanza accorsa a manifestare ha potuto constatare la grave erosione spondale già in atto lungo i tratti di argine disboscato nel 2020 per la costruzione della pista ciclabile.
L’ing. Vannoni ha affermato, riguardo al taglio, oggetto di contestazione, del bosco nell’area di fronte all’ansa di Ca’ Bianchi, che “l’obiettivo era rimuovere la vegetazione morta e secca. Parliamo di alberi ammalorati, inclinati”. Ma i cittadini chiedono chi abbia effettuato tali valutazioni su centinaia di alberi. Dalle sezioni dei tronchi tagliati appare al contrario la sanità dei soggetti arborei in questione.
L’amministrazione dichiara che i prossimi interventi saranno effettuati sotto la supervisione di un dottore forestale in modo da eseguire un taglio selettivo nelle aree oggetto d’intervento. Perché questo non è stato fatto da subito, per evitare la distruzione di interi boschi, e se ne parla solamente adesso, dopo le polemiche suscitate?
L’ingegnere ha inoltre motivato l’intervento massiccio in quell’ansa sostenendo che l’area boschiva avesse trattenuto troppi detriti, alzando quindi il proprio livello, e attribuendo a tale azione un valore negativo. Ma è proprio questo uno dei ruoli fondamentali che svolgono le aree riparie: divenire zone di laminazione per le acque in fase di esondazione e di arresto del materiale che altrimenti finirebbe a valle, all’interno del centro abitato, creando ulteriore potenza di impatto dell’acqua.
Per i lavori di gestione della vegetazione riparia verranno spesi 1 milione 600 mila euro, tuttavia, non sono questi i lavori idonei a mettere in sicurezza il territorio da piene consistenti.
Non si può rinviare la scelta di un profondo ripensamento di tutto l’assetto territoriale, si deve iniziare subito a rivedere un intero modello territoriale espansivo, che non è mai stato sostenibile.
Ridare spazio ai fiumi è un imperativo che deve concretizzarsi in progetti immediati e in rapide realizzazioni di allargamento-spostamento degli argini ovunque possibile, individuando e realizzando aree di laminazione delle piene (ex cave, meandri, golene, lanche, ecc.).
Quello che ci aspetta è un grande lavoro di pianificazione e riprogettazione del territorio; un lavoro che deve necessariamente vederci impegnati per il prossimo decennio e forse più.
In troppe occasioni si sente nei discorsi della classe dirigente e nelle proteste delle comunità, confondere il concetto di prevenzione con l’ulteriore cementificazione (proseguendo nel consumare suolo), con la distruzione (anziché il doveroso ripristino) degli ambienti naturali boschivi ripariali, con la costrizione dei corsi d’acqua entro limiti sempre più ristretti. Tutto questo a dispetto di pareri sempre più concordi della comunità scientifica sulla necessità di optare per la strada della rinaturalizzazione.
Come è possibile pensare ad un futuro non a rischio alluvioni se il consumo di suolo procede come se nulla fosse?
In questa Regione la percentuale delle aree occupate da superfici artificiali (suolo consumato) nelle zone a pericolosità idraulica elevata (HPH – High Probability Hazard, cioè allagabili a seguito di eventi con tempo di ritorno tra 20 e 50 anni) è pari all’8,0%, all’11,8% in aree a pericolosità media (MPH – Medium Probability Hazard, allagabili per eventi con tempo di ritorno tra 100 e 200 anni) e al 12,3% in aree a bassa pericolosità (LPH – Low Probability Hazard, allagabili con tempo di ritorno superiore a 200 anni). Mentre per quanto riguarda l’incremento di suolo artificializzato tra il 2022 e il 2023, ben 92 ettari ricadono in aree a pericolosità idraulica elevata e 433,1 ettari in aree a pericolosità idraulica media (circa la metà dell’incremento annuo a livello nazionale). (Rapporto Ispra 2023 sul consumo di suolo)