Fa male al cuore, per chi è da tempo impegnato su questo fronte, assistere impotente all’attuale forte ripresa del negazionismo climatico, certamente consolidato dall’elezione di Trump, ma già ben radicato nella compagine del governo italiano e nella stampa e nei media che lo sostengono, indissolubilmente legato (d’altronde si tratta di fenomeni connessi alla radice) alle politiche di respingimento dei profughi e di criminalizzazione di chi cerca di salvarli.

E’ però doloroso anche constatare che in questo campo caratterizzato da autoritarismo, repressione e dispotismo, e quasi solo in esso, soprattutto a livello internazionale, abbiano trovato casa molte delle posizioni contrarie a fornire armi all’Ucraina per alimentare la guerra tra la Nato e la Russia; ma soprattutto che si siano dovuti ritrovare sotto quell’ombrello, non avendone trovato nessun altro sotto cui ripararsi, tutti coloro che per i più svariati motivi sono contrari all’obbligo vaccinale, le cui ragioni e la cui consistenza sono state sottovalutate, quando non irrise, da tutto l’establishment. Tutte queste posizioni, purtroppo, si consolidano e si rafforzano reciprocamente.

Se contro i negazionisti della crisi climatica fosse stata mobilitata – da governi, media, accademia, intellettuali, “forze politiche” – anche solo la metà di quanto è stato fatto durante il covid per criminalizzare i no-vax e chi si opponeva all’obbligo vaccinale, non ci troveremmo a questo punto. Tanto più che a sostenere le tesi del negazionismo climatico è rimasto solo uno sparuto drappello di scienziati squalificati (cioè non qualificati in materia), sostenuti però da tutti i media di destra, mentre a favore dell’obbligo vaccinale era stato mobilitato in forme spettacolari il Gotha dell’accademia medica.

Eppure quei vaccini imposti per legge, ma non adeguatamente testati, erano carichi di incognite, costosissimi per i governi che li hanno comprati e soprattutto per quelli che non hanno potuto farlo, e sono risultati ben presto inutili nel contrasto al contagio sia attivo che passivo, anche se utili nell’attenuarne gli effetti più gravi, quando però la virulenza della pandemia si era già fortemente attenuata per vie naturali. Mentre continua a venir nascosta la maggior parte delle reazioni avverse (i medici sono scoraggiati in vari modi a segnalarle o a rilevarle nel tempo), senza contare gli effetti negativi e perduranti prodotti da un anno di distanziamento e di isolamento forzati, soprattutto sugli adolescenti. Invece, le manifestazioni sempre più virulente della crisi climatica non si possono nascondere; sono sotto gli occhi di tutti e vengono ormai, ma solo ora, collegate alla loro causa comune – i combustibili fossili – anche dalla stampa mainstream.

Certo, come è stato sbagliato affrontare il covid in quel modo, senza piani di prevenzione aggiornati, senza riconoscere la validità di pratiche mediche alternative, e con sanzioni pesanti per medici e cittadini “disobbedienti”, sarebbe ed è sbagliato affrontare la crisi climatica solo con metodi coercitivi o fiscali. Che non funzionano, come dimostra la retromarcia prima in Francia di fronte alla rivolta dei gilet gialli, poi in Europa di fronte alle lobby del gas, del nucleare, del glifosato e dell’auto, affiancate spesso, soprattutto queste, dai sindacati. Ma questo non significa che non si poteva e non si possa agire altrimenti.

Quello che ha accomunato gli approcci alla pandemia e alla crisi climatica è la verticalità. Le misure adottate sono state decise e imposte dall’alto senza coinvolgerne i destinatari con una mobilitazione e la promozione di strutture associative in grado di sviluppare un dibattito sulle alternative disponibili e sul modo migliore di praticarle. Ma il covid imperversava, si dirà; non si poteva attendere, ogni discussione avrebbe ritardato l’intervento. Quale? Quando sono state proprio la disorganizzazione del sistema e l’inconsapevolezza generale a provocare il disastro iniziale. E forse che la crisi climatica non imperversa? Non è già in pieno corso e prossima a un punto di non ritorno, se non lo ha già superato? E che senso ha varare un piano di 700 miliardi (200 per l’Italia) per far fronte alla crisi, come il Nextgeneration EU, senza coinvolgere in tutti i modi e con tutti i mezzi la popolazione nella discussione sulle scelte da adottare? Soprattutto a livello locale, dove la conoscenza che ciascuno ha del proprio territorio, dei suoi problemi e la possibilità di indicarne le priorità, sono essenziali per articolare piani, sia di prevenzione e di adattamento alle condizioni più difficili di esistenza che di mitigazione (cioè di intervento sulle cause). Con un potenziale “effetto domino”: il successo, anche parziale, di un territorio può innescare un processo imitativo in molti altri. La conversione ecologica, anche quella da affidare ai governi,  partirà dal basso o non ci sarà.

Il fatto è che mentre sul tema dei vaccini non c’è stata quasi nessuna esitazione da parte dell’establishment nell’adottare e imporre le misure più dure, nel caso della crisi climatica, a dare manforte ai negazionisti – e a spianare loro la conquista dei contrari ai vaccini – è stato il comportamento ondivago, poco o per nulla convinto, dell’establishment. Che, pur avendo tutti gli elementi per capire che le misure prospettate per far fronte alla dimensione della catastrofe climatica erano già di per sé insufficienti – perché se ne richiedono di molto più radicali – non ha esitato a derogare dagli impegni presi, facendo chiaramente capire che la loro adozione è sostanzialmente inutile. Il risultato è lo sperpero inconsulto dei miliardi del Pnrr, di cui è quasi impossibile capire l’impiego, ma di cui nemmeno una parte risulta destinata ad affrontare la crisi climatica.

Tipica la manfrina che si è sviluppata intorno al passaggio dell’auto dal termico all’elettrico. Il contributo delle automobili ai gas serra è persino minore di quelli della generazione elettrica, dei consumi civili, dell’agricoltura o dell’allevamento, ma l’auto ha un ruolo centrale nella nostra vita quotidiana come nell’atrofizzazione di quella sociale. Il problema non può essere affrontato senza mettere in campo delle alternative di trasporto condiviso sostenibili.

Che fare, allora? A sostenere un cambio di prospettiva non c’è che l’esempio, quello delle pratiche, purché sostenute da una visione complessiva che faccia di ogni iniziativa un caso replicabile: agire localmente, pensare globalmente. Le occasioni purtroppo non mancano e mancheranno sempre meno, perché i territori e le attività che si possono considerare al sicuro dagli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici e delle guerre sono sempre meno. E la costituzione di comunità impegnate a farvi fronte con iniziative solidali di partecipazione e di lotta per un uso diverso delle risorse disponibili sarà sempre più spesso all’ordine del giorno. A condizione che si abbia chiara la direzione su cui puntare.