Dopo la sentenza di assoluzione in primo grado (finora senza motivazioni rese pubbliche) del senatore Salvini nel processo Open Arms, con il corollario di una immediata ritorsione nei confronti del magistrato che ha dato il primo impulso al procedimento, il Tribunale di Palermo ha adottato un articolato provvedimento in materia di procedure accelerate in frontiera per richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri, in cui non convalida un decreto di trattenimento amministrativo emesso dal questore di Agrigento, nei confronti di un richiedente asilo proveniente dal Bangladesh, dunque da un paese di origine definito come “sicuro”. La decisione del Tribunale di Palermo è importante perché non richiama la questione ancora aperta della designazione dei paesi di origine come ”sicuri”, tuttora all’esame della Corte di Giustizia dell’Unione europea per diversi rinvii su questioni pregiudiziali, ma è tutta basata sul doveroso controllo giurisdizionale sugli atti amministrativi, e sul richiamo alle garanzie procedurali previste dalla normativa euro-unitaria tuttora vigente, in favore dei richiedenti asilo che vengono trattenuti subito dopo il loro ingresso in frontiera, spesso prima ancora che abbiano potuto formalizzare la loro richiesta di protezione.
Il Tribunale, con il decreto adottato in composizione monocratica il 2 gennaio scorso, ribadisce l’obbligo di motivazione delle misure di trattenimento adottate dai questori, e il principio gerarchico delle fonti normative, secondo cui la legge, e ancor di più le fonti normative euro-unionali, prevalgono sulle determinazioni delle autorità amministrative nazionali. Una ricostruzione che potrebbe apparire ovvia, ma che giunge puntuale in un momento in cui sembra che la finalità di “difesa dei confini”, o l’esigenza di restituire effettività ai provvedimenti di rimpatrio, possano prevalere sul più scrupoloso rispetto delle garanzie dei diritti fondamentali della persona, stabilite, oltre che dalla Costituzione (al riguardo si rinvia a Corte Costituzionale n.105/2001), dalle Direttive dell’Unione europea (non solo la Direttiva accoglienza n.33, ma anche la Direttiva procedure 2013/32/UE, e la Direttiva rimpatri 2008/115/CE), e quindi dalla disciplina nazionale.
Si profila comunque il rischio che, anche in caso di mancata convalida del decreto questorile di trattenimento, le Commissioni territoriali procedano ad un diniego lampo della richiesta di asilo per manifesta infondatezza, anche nel giro di due giorni dall’avvio della procedura, quando la persona provenga da un paese di origine ritenuto “sicuro”. E questo potrebbe comportare, in virtù del cd. “provvedimento unificato” adottato dalla Commissione territoriale, un nuovo trattenimento amministrativo, questa volta in un CPR, come si è già verificato a Caltanissetta, e come potrebbe verificarsi in futuro nel CPR di Gjader in Albania, con la possibilità di immediato rimpatrio del richiedente asilo, prima che sul suo ricorso si sia pronunciato un giudice, almeno in primo grado, se non con una sentenza definitiva. Con una eclatante violazione del diritto ad una difesa effettiva sancito dall’art.24 della Costituzione e dall’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Secondo l’art. 5 bis della legge n.187/2024, a decorrere dall’11 gennaio di quest’anno, “per i procedimenti aventi ad oggetto la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga del trattenimento del richiedente protezione internazionale, adottato a norma degli articoli 6, 6-bis e 6-ter del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e dell’articolo 10-ter, comma 3, quarto periodo, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché per la convalida delle misure adottate ai sensi dell’articolo 14, comma 6, del decreto legislativo n. 142 del 2015 è competente la corte d’appello di cui all’articolo 5, comma 2, della legge 22 aprile 2005, n. 69, nel cui distretto ha sede il questore che ha adottato il provvedimento oggetto di convalida.
I principi di diritto affermati adesso dal Tribunale di Palermo, supportati da un consistente rinvio a fonti sovranazionali ed alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, non potranno non valere anche quando le convalide saranno affidate alla competenza delle Corti di Appello in composizione monocratica, trattandosi di provvedimenti in materia della libertà personale sui quali non ci si può limitare ad una verifica formale dei presupposti, ad una convalida cartacea, anzi oggi telematica, in automatico, dovendosi piuttosto verificare il rispetto dei principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea applicabile in questi casi.
Se quindi qualcuno pensa di sfruttare il trasferimento di competenze alla Corte di Appello, come le decisioni della Cassazione o della Corte di Giustizia UE, sui paesi di origine sicuri, per prendersi una rivincita sui giudici, che già dalle sentenze del Tribunale di Catania (giudici Apostolico e Cupri) nel mese di ottobre di due anni fa avevano evidenziato i limiti dell’automatismo delle procedure accelerate in frontiera, già in materia di garanzia finanziaria alternativa al trattenimento, per il contrasto con la superiore normativa dell’Unione europea, ha fatto davvero male i suoi calcoli di parte. Questa materia non può continuare ad essere oggetto di propaganda elettorale. Anche con riferimento al paventato avvio del “modello Albania”, si può dare per scontato che, comunque decida la Corte di Giustizia dell’Unione europea sui rinvii pregiudiziali in merito alla designazione dei paesi di origine dei richiedenti asilo come sicuri, le prassi applicate in frontiera dagli organi di polizia ed i provvedimenti dei questori non si potranno sottrarre alla verifica giurisdizionale di quelle garanzie che sono stabilite dalla Costituzione e dalle Direttive dell’Unione europea. La funzione della giurisdizione non potrà essere sterilizzata per effetto di scelte politiche, comunque proceda l’attività di rivalsa sulla magistratura da parte del governo, con lo strumento del decreto legge, che poi in Parlamento viene approvato in modalità e con contenuti tali da produrre prassi amministrative in materia di libertà personale che mettono in dubbio la possibilità di riconoscere ancora nel nostro paese quello “Stato di diritto” che è al centro del dettato costituzionale e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.