Introduzione                                                                                                                                                                      Se la prima vittima della guerra è l’innocenza, come afferma Oliver Stone nel suo Platoon, la seconda è certamente la verità. Una verità che è sempre dura da cercare e ha difficoltà ad affermarsi per quello che è. Una verità che ha molti nemici. Nella Giornata della Memoria della Shoah si è soliti ricordare quello che è il vissuto umano dei sopravvissuti alla Shoah; le condizioni nei campi di prigionia, di rastrellamento e di concentramento; e la disumana tragedia.

Poche volte, però, si mette l’accento su quello che la Shoah è effettivamente stato: ovvero il primo genocidio scientificamente e tecnicamente pianificato nella storia, gestito come una industria molto redditizia basata sulla morte, in cui la tecnica e la scienza si sono mostrate essere strumenti non-neutrali asserviti, invece, alla matrice ideologica che le usa e le concepisce. Troppo spesso infatti ci si ricorda delle “camere a gas”, ma troppo poco si fa memoria del fatto che lo Zyklon B, il gas venefico usato per sterminare gli ebrei, era stato creato appositamente da scienziati nazisti per poterli sterminare; troppo spesso si ricordano i campi di sterminio, ma troppo poco si ricordano gli architetti al libro paga di grande industrie che li hanno progettati e soprattutto i “dipendenti” e i “dirigenti” di questi campi di sterminio che non avevano alcuna risonanza emotiva delle loro azioni poiché erano meri esecutori di un apparato amministrativo-burocratico che eseguivano ordini.

Esplorare il legame profondo tra la Germania nazista e l’industria chimica consente di riflettere ancora oggi sul rapporto tra scienza, etica e politica, nonché sull’inferno che l’uomo è capace di creare per i suoi stessi simili attraverso sistemi di potere e di comando di cui perde completamente il controllo etico. Questo è in qualche modo il messaggio fondamentale che Hannah Arendt espliciterà in “La banalità del male”, che Zigmunt Bauman spiegherà in “Modernità e Olocausto” e che in seguito il filosofo italiano Giorgio Agamben approfondirà in “Homo Sacer” e in “Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone.” A tal proposito è interessante la storia di quella che fu la macchina tecno-scientifica che produsse la Shoah, insieme all’Omocausto (sterminio degli omosessuali) e al Samudaripen (il genocidio delle popolazioni Rom, Sinti, Manush, Boyash, Caminanti) sempre per mano nazista: ovvero la Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG, conosciuta come IG Farben.

Gli albori dell’industria chimica e la nascita dell’IG Farben
Sin dalla fine dell’Ottocento i chimici combinarono la capacità di sintetizzare molecole con l’uso di materiali di scarto, preferendo fra questi quelli che rappresentano un rischio per l’ambiente. William Perkin, chimico britannico, era intenzionato a produrre il chinino – farmaco fondamentale per il trattamento della malaria – a partire dall’anilina, una molecola che veniva estratta dai residui di lavorazione del catrame di carbone. Lavorando nel suo laboratorio privato, Perkin nel 1856 sintetizzò per caso una sostanza viola intensamente colorata che chiamò mauveina. La mauveina è il primo colorante artificiale e segna la nascita della chimica organica e l’ingresso della chimica nel mondo della moda. Fu la Germania a conquistare il primato della sintesi organica grazie alle enormi quantità disponibili di catrame da carbone (soprattutto nella valle della Ruhr, nell’ovest del Paese, dove creava anche un grave problema ecologico).

L’industria chimica tedesca fu piuttosto vivace in termini imprenditoriali e, a partire dagli inizi del Novecento, iniziò a raggrupparsi in consorzi, fino alla costituzione, nel 1926, di un’unica grande industria chimica nazionale, nota come IG Farben in cui confluirono BASF, Bayer, Hoechst, Agfa, Chemische Fabrik Griesheim-Elektron e Chemische Fabrik vorm. L’industria nazionale tedesca aveva subìto gravi perdite dopo la Prima guerra mondiale, ma la IG Farben riuscì a mantenere il proprio fatturato affacciandosi al cancellierato di Adolf Hitler in condizioni più che floride. Con le nuove elezioni del 1933, la presa del potere da parte di Hitler e nonostante le leggi razziali pesassero sulla capacità produttiva della IG Farben, la vicinanza con il regime crebbe fino a rendere l’enorme industria chimica la più grande finanziatrice del partito nazista. Ciò diede grandi vantaggi a entrambe le parti. L’esercito tedesco godeva delle forniture della fiorente IG Farben e quest’ultima acquisiva – con metodi spicciativi quanto quelli di Hitler – nuove aziende. All’indomani dell’annessione dell’Austria nel 1938 la IG Farben si appropriò della Skoda Werke Wetzler, la principale industria chimica austriaca. La medesima cosa accadde all’industria chimica Aussinger Verein in Cecoslovacchia e poi in Polonia nel 1939 dove il colosso – ormai completamente organico al nazismo – si impossessò di tre industrie: Boruta, Wola e Winnica.

L’espansione ad est del colosso chimico e la nascita di Auschwitz
Nel frattempo, nel cuore della Seconda Guerra Mondiale le mire pangermaniste ed espansioniste di Hitler avevano aperto contemporaneamente tre fronti di guerra: Polonia, Francia e Gran Bretagna, estremamente costosi in termini di materie prime e di carburanti. Era necessario un corposo piano di approvvigionamento per munizioni, combustibili e gomma che necessitava della costruzione di nuovi grandi impianti chimici in tempi stretti. La IG Farben intravedeva nell’espansione a est, verso le Repubbliche socialiste dell’URSS, un nuovo enorme mercato per il polietilene e i carburanti. La scelta dei siti di produzione fu affidata a Otto Ambros, esperto nella produzione del polibutadiene, una gomma sintetica ottenuta dalla polimerizzazione del butadiene (abbreviato in Bu) attraverso un catalizzatore al sodio (simbolo chimico Na) (1), fondamentale nella produzione di pneumatici per il trasporto di rifornimenti e truppe.

La scelta del sito industriale si ristrinse alla regione della Slesia in Polonia in cui, in prossimità del futuro sito industriale, esisteva già un piccolo campo di prigionia che le SS avevano deciso di ampliare e che avrebbe fornito forza lavoro gratuita all’impianto BuNa (o Buna). Per l’IG Farben significava un risparmio immediato di almeno 5 milioni di marchi per la costruzione degli acquartieramenti dei lavoratori, oltre che per gli stipendi. Inoltre, le miniere di carbone nelle vicinanze assicuravano rifornimento di materie prime, acqua in abbondanza per gli usi industriali grazie alla presenza di fiumi, mentre una rete di autostrade e di linee ferroviarie vicine assicuravano facilità di trasporto di merci e uomini. Era deciso, il nuovo stabilimento sarebbe stato costruito ad Auschwitz, in un distretto popolato da circa 25.000 abitanti di cui, come riportano le relazioni dei sopralluoghi, «solo 2.000 di razza germanica e 7.000 ebrei».

Il connubio con il nazismo diventò indissolubile e il colosso chimico si compromise irrimediabilmente chiedendo a Hermann Wilhelm Göring di fornire fra gli 8.000 e i 12.000 lavoratori a basso costo per la costruzione del sito. Heinrich Himmler ordinò alle SS del campo Auschwitz I (il sito originale delle SS) «di mettersi in contatto con i responsabili della costruzione dell’impianto per aiutare il progetto per mezzo dei prigionieri del campo di concentramento in ogni modo possibile». L’accordo prevedeva il pagamento di tre marchi al giorno per ciascun lavoratore; quattro per quelli con esperienza e un marco e mezzo per i bambini. Soldi da pagare alle SS, non ai prigionieri. Agli ebrei reclusi nel campo veniva detto che avrebbero lavorato per una fabbrica di gomma chiamata Buna, promettendogli – ovviamente a parole – che una volta finita la guerra sarebbero stati liberi. Dopo Dachau, nel 1940 anche ad Auschwitz fu apposta beffardamente la scritta “Arbeit macht frei” sul cancello d’entrata: un motto ancora oggi impattante a livello simbolico.

Nonostante gli sforzi delle SS per fornire materiale umano per la costruzione del sito, i progressi risultavano lenti poiché i metodi brutali utilizzati con i prigionieri risultavano controproduttivi. Questo rappresentò il punto di svolta: con quasi un miliardo di marchi investiti nel progetto, la IG Farben aveva bisogno di tempi certi e compì un ulteriore passo verso l’abisso, decidendo di costruire il proprio campo di prigionia proprio accanto alla fabbrica. Nell’estate del 1942 viene quindi completato il sito di Auschwitz III a Monowice gestito dalla IG Farben, in perfetta sintonia con i metodi delle SS. Nel 1944, l’IG Farben sfruttava 83.000 deportati. Nel frattempo aveva iniziato a funzionare a pieno regime il campo Auschwitz II-Birkenau, dove erano state costruite le camere a gas e i forni crematori per la cosiddetta “soluzione finale al problema ebraico”.

La presenza del sito di Birkenau rappresentava un problema pratico per il rifornimento della forza-lavoro: i manager del sito Buna lamentavano che in alcune occasioni oltre l’80% dei circa 5000 deportati ebrei che arrivavano alla stazione di Auschwitz III venivano portati alle camere a gas e solo il 20% inviati al sito di Monowice, un numero decisamente insufficiente. Così la discesa agli inferi si fece sempre più profonda e la IG Farben ottenne che i deportati arrivassero direttamente alla stazione di Dwory, accanto all’impianto industriale.

La selezione dei prigionieri ebrei da tenere in vita veniva svolta dal personale dell’IG Farben e la percentuale dei lavoratori selezionati, i quali affrontavano una vita di stenti che gli stessi medici del campo prevedevano non sarebbe durata oltre i tre mesi, salì al 50%. Circa 25.000 deportati lavorarono fino alla morte per la IG Farben (2).

L’uso dello Zyklon B
Dal sito Auschwitz III si vedeva la ciminiera che torreggiava sul sito di Auschwitz II-Birkenau. A Birkenau erano destinati i deportati che non erano in grado di fornire forza lavoro per l’impianto Buna. Birkenau è il luogo dove la soluzione finale del problema ebraico raggiunse il suo apice. Nell’agosto 1941, per velocizzare lo sterminio – che nel campo di Treblinka era già iniziato da tempo con l’uso di camere a gas a monossido di carbonio – il comandante Rudolf Höß decise di introdurre lo Zyklon B, nome commerciale dell’acido prussico (acido cianidrico nella corretta nomenclatura chimica del quale la IG Farben deteneva il brevetto) fabbricato dall’azienda chimica Degesch, posseduta per il 42,5% dalla IG Farben. L’acido cianidrico era utilizzato in quantità moderate per il controllo dei parassiti dei prigionieri, ma era addizionato di un potente agente odorigeno richiesto per legge per avvertire del pericolo della presenza del composto chimico.

Höß chiese invece alla Degesch di produrre il composto senza l’indicatore olfattivo per poterlo utilizzare senza scatenare il panico fra i deportati chiusi nelle camere a gas. L’avvelenamento è legato al fatto che HCN si lega all’enzima di membrana citocromo ossidasi (COX), coinvolto nella respirazione cellulare. In condizioni fisiologiche la COX si lega a una molecola di ossigeno e consente la formazione dell’ATP, la molecola energetica che assicura la sopravvivenza delle cellule. In presenza di HCN l’ossigeno non è più in grado di legarsi all’enzima, la cellula non produce più ATP e come immediata conseguenza va in ipossia, provocando il decesso dell’organismo. Per le SS questo era considerato un metodo di sterminio “rapido ed efficace”. Una tonnellata di Zyklon B serviva ad uccidere sistematicamente 1 milione di persone e la IG Farben ne ha prodotte, fino al 1945, 500 tonnellate: quantità pensata per poter uccidere 500 milioni di persone.

Dopo la Shoah…
Dopo la Shoah, la IG Farben ha partecipato a progetti statunitensi per la creazione di agenti chimici per l’uso bellico. Fondò la Chemagrow Corporation a Kansas City nel Missouri, che impiegava specialisti tedeschi e statunitensi per conto dell’U.S Army Chemical Corps. Il dottor Otto Bayer coprì la posizione di direttore della ricerca della IG Farben, dove sviluppò e testò numerose armi chimiche insieme al dottor Gerhard Schrader.

Secondo The Crime and Punishment of I.G. Farben, di Joseph Borkin, prima della guerra la IG Farben strinse degli accordi segreti con i maggiori vertici delle forze armate statunitensi perché non fossero bombardati i suoi stabilimenti in Germania (3).

A causa della gravità dei crimini di guerra commessi dalla IG Farben nel corso della Seconda Guerra Mondiale e dell’ampio coinvolgimento della direzione nelle atrocità naziste, la compagnia fu ritenuta troppo corrotta per continuare ad esistere ma nel 1951, la compagnia fu divisa nelle componenti originali. Le quattro più grosse comprarono rapidamente quelle più piccole e oggi la IG Farbern ha i suoi eredi in Agfa, BASF e Bayer, mentre la Hoechst si è fusa con la francese Rhône-Poulenc, dando vita alla casa farmaceutica Sanofi Aventis, con sede a Strasburgo, in Francia. L’ipocrisia vuole che oggi il motto di Bayer sia “Science for a Better Life”, ovvero “la scienza per una vita migliore”.

Dei 24 consiglieri della IG Farben indiziati nel cosiddetto Processo all’IG Farben (1947-1948), davanti a un tribunale militare statunitense al Processo di Norimberga, 13 vennero condannati alla prigione con pene dai 6 mesi agli otto anni, 10 furono assolti ed uno rilasciato per motivi di salute. I 13 responsabili della IG Farben condannati furono dichiarati colpevoli di complicità di genocidio, di schiavitù ed altri crimini. Nulla in confronto ai loro crimini. Molti dei condannati ripresero una posizione di rilievo nelle aziende in cui la IG Farben venne smembrata a fine conflitto.

Quando l’Amministratore delegato della IG Farben al Processo di Norimberga è stato interrogato e il magistrato gli disse “Lei dovrà rendere conto alla sua coscienza e alla storia”, lui rispose: “La mia coscienza può rendere conto solo ai miei azionisti”.
Nonostante la compagnia fosse stata ufficialmente liquidata nel 1952, continuò a essere trattata alla Borsa di Francoforte come un trust, che conteneva alcune proprietà immobiliari, e venne dichiarata in bancarotta solo il 10 novembre 2003, dopo aver versato 500.000 marchi (circa 200.000 euro) a una fondazione per gli ex lavoratori forzati del regime nazista. Le restanti proprietà, del valore di 21 milioni di marchi (circa 9 milioni di euro), furono messe all’asta. Durante tutto questo periodo la compagnia è stata soggetta a continue critiche per non aver pagato il lavoro dei prigionieri, unico motivo per cui sarebbe stata mantenuta in vita dopo il 1952.

Nella prefazione al libro “Le radici naziste dell’Unione Europea” , August Kowalzcyk (ex prigioniero del campo di concentramento e di sterminio tedesco nazista ad Auschwitz, matricola 6804, sopravvissuto alla Shoah), in riferimento ai politici europei complici o che hanno avuto rapporti con la IG Farber, scrisse: “Da dietro le tende recanti l’iscrizione della Commissione Europea, emergono volti che conosco personalmente – ma di cui non conosco i nomi o cognomi. Lì siedono persone accusate e sentenziate nei Tribunali di Norimberga: direttori, legali e ingegneri del cantiere di Oswiecim, l’impianto petrolchimico dell’IG Farben ad Auschwitz. Tutti loro hanno visto la morte e l’agonia di quelli che stavano per morire ma hanno rivolto il loro sguardo verso l’orizzonte. Essi hanno udito le grida penetranti dei guardiani cattivi, le loro bestemmie e i loro colpi, spesso letali; però erano sordi ai richiami di aiuto e alle richieste di grazia. Con calma monitoravano i risultati operativi delle loro corporazioni e salvaguardavano i profitti. La loro unica preoccupazione era che le loro imprese demoniache potessero diventare troppo poco redditizie.”(4)

Oggi, a Francoforte sul Meno, si può ammirare l’IG Farben Haus, il palazzo del quartier generale del conglomerato che fu progettato dall’architetto tedesco Hans Poelzing nel 1928 e che oggi ospita l’Università Goethe di Francoforte, il più grande ateneo dell’Assia con 37.353 studenti e 16 facoltà.

Zigmunt Bauman, La tragedia della Shoah, Modernità e Olocausto https://www.rizzolieducation.it/content/uploads/2022/01/Balzani_v3_2022_La_tragedia_della_shoah.pdf
Massimo Trotta, L’industria chimica e la Shoah, Storia della Scienza – Sapere, febbraio 2020: https://www.cnr.it/sites/default/files/public/media/sapere_febbraio_2020_trotta.pdf
Giorgio Vaccarino, Nuove fonti sull’imperialismo economico nazista La Ig Farben e il “nuovo ordine” https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1987_166-169_31.pdf
Beppe Grillo – Farmaci Bayer: https://www.youtube.com/watch?v=iGIaeDE1Qbc

(1) P. REDONDI (a cura di), La gomma artificiale. (iVlio /atta e i laboratori Pirelli, Guerini e Associati, Milano 2013.
(2) Verbali dei processi ai criminali di guerra davanti ai tribunali militari di Norimberga, VIII – Il Caso Farben.
(3) L’esistenza di questi accordi è ben documentata anche da un ufficiale statunitense (I.G. Farben di Richard Sasuly, Boni & Gaer Publ., N.Y. N.Y, 1947).
(4) August Kowakczyk sintetizza la sua esperienza ad Auschwitz nel libro ‘A Barbed Wire Refrain’.