(riceviamo e pubblichiamo da Vatican News)

Nella giornata mondiale contro la lebbra, ieri si è rilanciato l’allarme su una malattia che colpisce soprattutto i poveri di Asia, Africa e America Latina.

L’Aifo (www.aifo.it) lancia la campagna ‘Chi è malato guarisce solo se qualcuno l’abbraccia’, e sottolinea l’importanza della cura, dell’inclusione e del sostegno

India, Brasile e Indonesia: sono questi i tre i Paesi dove negli ultimi mesi è stato registrato il maggior numero di casi di lebbra.

Una malattia che, nonostante sia curabile, rappresenta ancora un problema sanitario rilevante in diversi Stati dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, dove persistono condizioni socio-economiche precarie che ne favoriscono la trasmissione.

L’Associazione italiana amici di Raoul Follereau ETS (Aifo) – in occasione della 72ma Giornata Mondiale dei malati di lebbra domenica 26 gennaio – ha lanciato una campagna attorno al tema dell’abbraccio come concetto che unisce.

Lo slogan “chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia” pone infatti l’accento sulla centralità della persona e non della malattia, sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini.

I Paesi più colpiti

Nel corso del 2023 sono stati registrati in totale 182.815 casi globali di lebbra con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente, come emerge dall’ultimo rapporto annuale pubblicato a settembre 2024 dall’Oms.

India, Brasile e Indonesia, come detto, risultano essere i Paesi più colpiti, mentre tra i nuovi casi globali il 5,7% sono bambini e il 39,9% sono donne.

Dai dati raccolti si evince inoltre che è in crescita il numero delle persone che presentano gravi disabilità al momento della diagnosi: nel 2023, tra le persone diagnosticate, il 5,3 % presentavano disabilità gravi, di cui il 2,7 %, bambini.

Ciò indica che, ancora oggi, a causa della scarsa conoscenza dei sintomi della malattia all’interno delle comunità, delle difficoltà di accesso e della scarsa qualità dei servizi di trattamento, la diagnosi avviene tardivamente e in molti casi la persona colpita dalla malattia si presenta già con disabilità fisiche irreversibili.

Aifo, le storie di speranza

Ma l’opera di sensibilizzazione di Aifo fa emergere anche storie di speranza.

Come quella di Dario, un ragazzo di 18 anni che vive in un piccolo villaggio della provincia di Manica, in Mozambico.

La sua è una storia di povertà e lebbra, ma anche di dignità e inclusione, elementi fondamentali per rompere una spirale di esclusione e povertà.
La lebbra, contratta da Dario quando aveva 11 anni, ha lasciato segni sul suo viso, occhio e mani, diventando causa di isolamento.
I coetanei lo evitavano per paura, e lui, per tre anni, ha dovuto interrompere la scuola.

Grazie a una diagnosi tempestiva, tuttavia, Dario ha iniziato il suo percorso di cura e speranza tramite l’aiuto di Aifo.

Oggi sta riscrivendo il proprio destino: dopo aver ripreso gli studi, ha frequentato un corso da barbiere e ora è in grado di guadagnare, rendendosi progressivamente indipendente.
Orfano di genitori, vive con i nonni, ma sogna un futuro dove potrà prendersi cura di sé e realizzare i propri progetti.

Mozambico, la vita di Julieta

Un’altra storia, sempre dal Mozambico, è quella di Julieta.
La provincia dove risiede, quella settentrionale di Nampula, è la più colpita dalla lebbra.

Qui è nato il Gruppo Nikahianeke, che in lingua macua significa “Stiamo insieme per aiutarci a vicenda”: 14 donne, che oggi con orgoglio coltivano un campo che permette loro non solo di nutrire le famiglie ma anche di vendere per comperare beni di prima necessità.

Tra loro proprio Julieta, che ha vinto la lebbra contratta da bambina e che oggi è una donna attiva in famiglia e nella società.

Julieta non vede più da un occhio e ha una disabilità che ha colpito le mani e le gambe.

Da sola non riuscirebbe a coltivare un campo, ma grazie al Gruppo Nikahianeke può dare da mangiare alla sua famiglia e ricavare qualcosa dalla vendita.

Oggi Julieta ha una vita produttiva, una vita che, racconta, «serve a sé stessa e agli altri».