Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa testimonianza sulla vita quotidiana di una donna in Iran. Per ovvie ragioni di sicurezza, il nome dell’autrice non compare.

Il tema delle donne e della condizione femminile è uno degli argomenti più discussi a livello globale, ma la questione delle donne e della femminilità nei regimi militari e ultrareligiosi presenta difficoltà inimmaginabili in altri contesti.

La vita delle donne iraniane è cambiata radicalmente dopo la rivoluzione del 1979. Leggi retrograde e rigide, ammantate di sacralità, sono state imposte in ogni aspetto della vita femminile. In verità, un europeo o un occidentale non può immaginare la complessità dell’esistenza di una donna in Iran o in altri Paesi del Medio Oriente governati dall’Islam sciita. Una donna europea non sa quanto possa essere rischioso un gesto semplice come comprare una baguette al negozio dietro l’angolo! Questo atto banale potrebbe cambiare per sempre il tuo destino, se tuo padre, tuo fratello o tuo marito dovessero sospettare che, come donna, ci sia qualcosa di equivoco nel fatto che tu abbia impiegato quindici  minuti per un acquisto che normalmente ne richiede solo cinque. Questo ritardo di dieci minuti potrebbe essere interpretato dagli uomini della famiglia come la prova di un incontro romantico con un estraneo. Per questa semplice supposizione, al tuo ritorno a casa, potrebbero ritenersi autorizzati a “toglierti la vita” senza chiederti alcuna spiegazione (vi invito a consultare i resoconti sui  cosiddetti” delitti d’onore” in Iran).

Come donna iraniana, sei considerata la “namus” di un uomo, un termine che si potrebbe tradurre come “onore” o “proprietà”. Questo significa che fai parte delle sue proprietà, che non hai autonomia, che non puoi decidere nulla per te stessa come essere umano: non puoi scegliere cosa indossare, chi frequentare, chi amare. Non puoi proseguire gli studi, scegliere un lavoro, chiedere il divorzio, vivere da sola, viaggiare da sola, né prendere centinaia di altre decisioni grandi o piccole. Secondo la legge islamica e la Sharia, la donna è subordinata all’uomo, vale metà dell’uomo e poiché il suo intelletto è considerato “incompleto” deve essere sempre sotto il controllo dell’uomo.  L’autorità primaria su una donna spetta al padre e in sua assenza, al fratello maggiore o minore;  se non ci sono fratelli agli zii paterni o materni e se nemmeno loro sono in vita ai loro figli. Sono questi uomini a decidere con chi puoi sposarti, se puoi studiare, lavorare, viaggiare e cosi via. Se non segui le loro decisioni, la legge consente loro di punirti, il che può significare rinchiuderti, picchiarti, costringerti a sposarti o persino toglierti la vita. Le leggi di apartheid di genere, di cui ho descritto un esempio, iniziano all’interno della famiglia.

Ora, supponiamo che tu sia cresciuta in una famiglia meno retrograda, urbana, istruita e non religiosa, che riconosca i tuoi diritti fondamentali come donna e persino come essere umano, una fortuna che io stessa ho avuto. Anche in questo caso, posso vivere una vita normale come donna? In base alla mia esperienza personale e a quella delle donne che mi circondano, la risposta è no. Non ho mai avuto una vita normale. Come donna libera, non religiosa e istruita, ho sempre incontrato ostacoli. Uno dei miei problemi principali è stato il rifiuto di conformarmi agli standard di abbigliamento imposti dal regime e di indossare il chador. Questa scelta mi ha precluso molte opportunità di lavoro, sia nel settore pubblico che in quello privato, persino come insegnante. Dopo aver completato gli studi universitari, ho deciso di aprire un’agenzia di viaggi come guida turistica. Tuttavia, per ottenere la licenza, ho dovuto affrontare una burocrazia complessa e interminabile, con la necessità di presentarmi negli uffici governativi indossando il chador, altrimenti mi veniva negato l’accesso. Dopo anni di sforzi sono riuscita ad ottenere la licenza, ma nei primi mesi di attività la mia azienda è stata presa di mira dai servizi di intelligence  per il semplice fatto che sui miei profili social, Instagram e Telegram comparivano foto che mi ritraevano senza velo. Questo ha portato alla revoca della mia licenza. Questo è solo un piccolo esempio delle difficoltà di vivere in un Paese che somiglia più a una prigione o a una caserma militare.

Potrei raccontarvi molto altro sulle tragedie che ho vissuto come donna. Non ho ancora parlato del mio amore per la danza classica o il pattinaggio, né di quanto desiderassi praticare la ginnastica, affrontando però ostacoli enormi per raggiungere il livello agonistico. Come insegnante di yoga, ho potuto tenere lezioni solo in scantinati bui e senza ventilazione. Persino quando ho vissuto per un anno nel sud dell’Iran, vicino al mare, non mi è stato permesso di fare yoga in spiaggia; la polizia morale sarebbe intervenuta immediatamente arrestandomi e portandomi in cella, anche se ero completamente coperta. Come donne occidentali non potete immaginare cosa significhi vivere in un ambiente così oppressivo. Voi potete ballare per strada, cantare, praticare yoga ovunque vogliate, in studi luminosi con finestre che danno sugli alberi. Potete viaggiare liberamente, vestirvi come preferite, amare, bere, gioire, cantare … Noi donne iraniane rischiamo la vita per ogni singolo atto di libertà, persino camminare senza velo per strada.