L’annuncio di Zelensky sul mancato rinnovo dell’accordo con Gazprom per permettere il passaggio sul suolo Ucraino del gas russo destinato all’Europa rappresenta una grande vittoria degli Stati Uniti. Ma non come si potrebbe pensare nei confronti della Russia, già da tempo preparata a questo evento, quanto piuttosto nei confronti di una sempre più derelitta Europa, che sarà costretta a maggiori acquisti di gas naturale liquefatto, più caro e più inquinante, dagli Usa, se non addirittura, come ipotizza qualcuno, dalla stessa Russia che dall’inizio del conflitto è divenuta, in questo campo, la seconda produttrice mondiale dietro gli stessi Usa.

È comunque certo che il nuovo colpo inferto all’Europa fa perfettamente il gioco della prossima presidenza Trump, che come è noto vuole rilanciare l’industria nazionale statunitense arrestando i processi di delocalizzazione, attraverso politiche protezionistiche che prevedono l’adozione di forti dazi sulle importazioni che colpiranno gravemente l’industria del vecchio continente. A questo si aggiunge la pretesa che gli Stati europei aumentino le spese militare portandole, non già al 3% del PIL come pretendeva Biden, ma addirittura al 5%. 

I pagliacci di Bruxelles, intanto, per bocca del burattino in capo, la signora von der Leyen, ci fanno sapere che non c’è da preoccuparsi perché il gas non mancherà. Infatti non mancherà! Peccato che il suo prezzo ha già superato i 50 euro a megawattora, come non accadeva dall’ottobre del 2023, e potrebbe salire ancora, in vista degli approvvigionamenti non di questo ma del prossimo inverno,  evocando lo spettro dei picchi raggiunti nell’estate del 2022 quando il suo costo arrivò a toccare i 345 euro per Megawattora. 

In questi scenari la stagnazione e la perdita di competitività sembrano attanagliare inesorabilmente il nostro continente. I dati ci dicono che nel 2023 l’Europa ha registrato un misero 6,7% degli investimenti industriali a livello globale, a fronte del 54% dell’Asia e del 28,5% degli Usa. Una crisi che si manifesta soprattutto in Germania, vecchio cuore pulsante dell’Unione, oggi apertamente in recessione. Ma ciò che è ancora più grave è che quella tedesca non è una semplice situazione congiunturale, ma un problema che sembra essere di ordine strutturale e strategico, forse segno di una caduta tendenzialmente irreversibile. 

Storicamente la potenza tedesca ha fondato il suo sviluppo su una politica mercantilista votata alla costante crescita delle esportazioni e dell’attivo della bilancia commerciale, potendo inoltre contare anche sulla particolarissima situazione prodotta dalla moneta unica, che rendeva l’intera Europa una sorta di mercato interno per l’espansione della propria economia. Al centro stava l’industria automobilistica, quando questa era la locomotiva della crescita globale. Volkswagen, Mercedes  e BMV in competizione con le aziende americane, principalmente General Motors e Ford, e con quelle giapponesi, per la conquista dei mercati globali.

Oggi la situazione è completamente cambiata. Mentre l’industria tedesca è rimasta ferma alla centralità dell’auto, i colossi a stelle e strisce che oggi la fanno da padroni, si chiamano Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia, segno di un mutamento profondo, principalmente prodotto dalla competizione che gravita intorno alle nuove tecnologie. L’economia del presente ed ancor più quella del futuro, sarà centrata oltre che sul dominio della finanza sulla capacità di acquisire posizioni di forza in tre particolari campi che riguardano: informatica; capitalismo delle piattaforme; Intelligenza Artificiale. Su questo terreno dire, come qualcuno ha detto, che il ritardo dell’Europa è quanto meno imbarazzante, è addirittura riduttivo. Su questo terreno l’Europa semplicemente non esiste!

Quello, che a conferma di quanto diciamo, può apparire ancora più grave è la perdita di competitività che sembra investire in questo ultimo periodo la stessa industria automobilistica tedesca (ma potremmo anche dire europea considerando l’attuale crisi della italo-francese Stellantis). Ciò in ragione del fatto che la perdita di centralità dell’auto non significa il venire meno della sua importanza, anche strategica. Pure in questo caso tutto si gioca sulla innovazione tecnologica. Due sono le questioni in ballo: la produzione dei propulsori elettrici e la robotizzazione dei veicoli a guida autonoma, senza interventi umani. Pare che anche su questo terreno le prospettive dell’industria europea, e tedesca in particolare, non siano tra le più rosee di fronte alla crescita di due colossi del settore quali sono l’americana Tesla del multimiliardario Elon Musk, ora anche politico di spicco della squadra di Trump, e la cinese Byd, poco conosciuta dalle nostre parti ma molto aggressiva sui mercati. Entrambe sono vicine alla produzione annua di 2 milioni di veicoli totalmente elettrici, ma soprattutto sembrano molto più attive dell’industria nostrana sul piano dell’innovazione.

Un capitolo a parte meriterebbe il ruolo che il grande capitale finanziario ha nel determinare i giochi della geopolitica, ma anche nel regolare lo sviluppo e l’impatto sociale ed economico delle nuove tecnologie. Anche da questo punto di vista l’Europa sembra essere destinata ad essere, sempre più, fuori dai giochi. Basterebbe ricordare come i tre più grandi fondi di investimento nordamericani, le cosiddette Big Three, (BlackRock, Vanguard e State Street) hanno un patrimonio complessivo superiore ai 25 mila miliardi di dollari, vale a dire cinque volte e mezzo l’intero pil prodotto dalla Germania nel 2023, e più di undici volte quello italiano. Ma qui si apre un altro capitolo molto doloroso per l’Europa e sul dovremo necessariamente tornare.