Come riporta l’ANSA, “l’avvocato Luigi Li Gotti, sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi dal 2006 al 2008, ha presentato una denuncia per favoreggiamento e peculato alla Procura della Repubblica di Roma contro la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, i ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, ed il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, titolare della delega ai servizi segreti, in merito alla liberazione di Osama Almasri, dopo il suo arresto a Torino, chiedendo che sulla vicenda “vengano svolte specifiche indagini”.
Secondo la denuncia, “il reato di favoreggiamento personale viene commesso da chiunque aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti. La norma è stata aggiornata nel 2022 proprio riguardo alle investigazioni della Corte penale internazionale”. Per l’avvocato Li Gotti “nella vicenda Almasri é stato commesso anche il reato di peculato per l’utilizzo di un aereo di Stato italiano per riportare il comandante libico nel suo Paese”.
Al di là degli aspetti penali che saranno esaminati dai giudici competenti, emergono gravi criticità anche sotto il profilo dell’espulsione “ministeriale” che sarebbe stata disposta dal ministro dell’interno Piantedosi, mentre il suo collega Nordio, ministro della Giustizia, nel pomeriggio di martedì 22 gennaio scorso alle 16 emetteva un comunicato in cui dichiarava che stava “valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma, ai sensi dell’articolo 4 della legge 237 del 2012”. Una “valutazione” che è stata prima ritardata, e poi molto veloce, che si è conclusa con una decisione di non richiedere alla Corte di Appello di Roma misure cautelari di limitazione della libertà personale. Tanto che il generale Almasri, attorno alle 19 dello stesso giorno, veniva fatto imbarcare su un aereo Falcon dei servizi segreti che lo riportava a Tripoli, dove veniva accolto da una folla festante e dal capo della “sua” milizia RADA.
L’ordinanza della Corte di Appello di Roma prende atto della mancata richiesta di arresto che doveva provenire dal ministro della giustizia. Dall’ordinanza risulta che già domenica 19 gennaio, subito dopo l’arresto, la questura di Torino aveva trasmesso l’intera documentazione al Procuratore della Corte di Appello di Roma ed allo stesso ministro della giustizia. Rimane da accertare l’orario nel quale la Corte di Appello di Roma ha adottato il suo provvedimento, e nello stesso giorno, il momento in cui il ministro dell’interno ha formalizzato e quindi notificato, l’espulsione “ministeriale” del generale Almasri. In queste ore cruciali quale è stato il livello di interlocuzione tra Giorgia Meloni ed i suoi ministri ?
L’Italia, anche per effetto del provvedimento di espulsione ministeriale, non ha rispettato nella sostanza le regole di cooperazione giudiziaria stabilite nello Statuto della Corte firmato a Roma e nella legge di attuazione 20 dicembre 2012, n. 237, non solo In base all’art. 4 della legge di attuazione, che Nordio aveva già richiamato espressamente nel suo scarno comunicato, ma soprattutto in base all’art. 14 comma 3 della stessa legge in materia di applicazione provvisoria della misura cautelare, secondo cui “ Il Ministro della giustizia comunica immediatamente alla Corte penale internazionale l’avvenuta esecuzione della misura cautelare”. La norma è espressione di un più ampio dovere di cooperazione giudiziaria tra le autorità nazionali e la CPI. Secondo l’art. 97 dello Statuto di Roma, “Quando uno Stato parte, investito di una richiesta ai sensi del presente capitolo, constata che la stessa solleva difficoltà che potrebbero intralciarne o impedirne l’esecuzione, esso consulta senza indugio la Corte per risolvere il problema”.
Ma nè il ministro Nordio, nè tantomeno altri ministri, o la presidente del Consiglio, hanno consultato la Corte dell’Aja, prima di procedere al rimpatrio immediato di Almasri. Se non si fosse proceduto con tanta rapidità all’espulsione con un volo di Stato, e se si fosse interloquito con la ICC, forse sarebbe stato possibile garantire la sanzione di reati gravissimi e di crimini contro l’umanità che adesso potrebbero restare impuniti. Perchè nessuna autorità giudiziaria in Libia può sanzionare gli abusi e le violenze commessi dalle milizie, ai danni delle persone migranti, ma anche contro tanti cittadini libici, come quelli che erano detenuti in condizioni disumane nel centro di detenzione di Mitiga, controllato dal generale Almasri.
L’ espulsione “ministeriale (disposta dal ministro dell’interno per motivi di sicurezza nazionale ex art.13 comma 1 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98), veniva eseguita attorno alle 19 di martedì 21 gennaio, con un volo speciale per Tripoli organizzato già ore prima dai servizi, quindi con una piena consapevolezza del Viminale di procedere in tempi rapidi all’espulsione, senza che ci fosse alcuna consultazione con la Corte Penale internazionale, obbligo di legge che non poteva essere ignoto neppure al ministro dell’interno ed alla Presidente del Consiglio, che in questi casi di espulsione “ministeriale” devono essere avvertiti dal titolare del Viminale, prima della esecuzione della misura di allontanamento.
La “pericolosità sociale” del generale Almasri non c’entra evidentemente nulla con il suo rimpatrio più “assistito”, che “forzato”, a Tripoli. Il provvedimento di espulsione “ministeriale” adottato da Piantedosi, seppure possa risultare in apparenza mero esercizio di un potere che rientra nella vasta sfera di discrezionalità politica, alla luce delle dichiarazioni rese dal ministro in Parlamento, nelle quali si qualifica come “pericoloso” il generale Almasri, appare illegittimo perché formalmente privo dei presupposti richiesti dall’art. 13 c.1 T.U 286/98. “Motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” che devono fare riferimento alla situazione esistente all’interno del nostro paese, e non a potenziali rischi che si verificano in un altro paese, per effetto semmai di scelte politiche del governo italiano, come il ricorso alle milizie libiche per esternalizzare i controlli di frontiera e bloccare il maggior numero di tentativi di attraversamento del Mediterraneo.
Quale ”pericolo per l’ordine pubblico”, o per la “sicurezza dello Stato”, sarebbe potuto provenire da una persona detenuta in un carcere italiano sotto mandato di arresto della Corte Penale internazionale? A meno che non si ritenga che l’”ordine pubblico” o la “sicurezza dello Stato” dipendano dai poteri di ricatto che i miliziani dalla Rada, collegati all governo “amico” Dbeibah, esercitano sugli interessi (e probabilmente anche sui cittadini) italiani in Libia. Ma riportare a queste circostanze le motivazioni del provvedimento di espulsione “ministeriale” per motivi di “ordine pubblico e sicurezza nazionale”, adottato dal ministro Piantedosi, significherebbe, anche per il futuro, riconoscere che i rapporti con i libici siano mediati da signori della guerra e da miliziani sospettati di gravissimi reati, lasciati liberi di operare all’ombra del governo Dbeibah (di unità nazionale- GNA). Un governo provvisorio riconosciuto dalla comunità internazionale, ma che in realtà fatica a mantenere un fragile equilibrio persino nella capitale Tripoli.
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