“Chi non ama i giornalisti che fanno il proprio lavoro li definisce spesso attivisti politici; quei reporter invece cercano solo la verità e la verità a qualcuno fa male”. A parlare è Betlehem Isaak, cronista come il padre, detenuto in un carcere dell’Eritrea da 23 anni.
L’intervista con l’agenzia Dire si tiene mentre in Italia i media continuano a rilanciare ricostruzioni sul rilascio di Cecilia Sala, prigioniera in Iran per tre settimane.

“Sì, spesso ci sono doppi standard, ma non è di questo che vorrei parlare”, sottolinea Isaak. “Mi sta a cuore piuttosto la tutela di tutti i cittadini e di tutti i giornalisti; sono molto contenta che Sala sia stata rilasciata perché temevo potesse restare in carcere a lungo, come tanti altri nel famigerato carcere iraniano di Evin”.

Un destino che li accomuna a Dawit Isaak, il padre di Betlehem. Doppia nazionalità come la figlia, eritrea e svedese, lui oggi ha 60 anni. Fu arrestato il 23 settembre 2001 ad Asmara, dove era tornato a vivere con la famiglia. Dopo l’esperienza come autore e sceneggiatore teatrale, aveva deciso di impegnarsi come cronista, con Setit, giornale critico, anche verso il governo di Isaias Afewerki: al primo e tuttora unico presidente dell’Eritrea chiedeva “riforme democratiche”, con articoli, interviste e inchieste.

“Sappiamo solo che è vivo”, dice Betlehem, che ha 31 anni e vive in Svezia, dove fuggì con la madre e i familiari dopo l’arresto del padre. Come giornalista oggi lavora sull’attualità e la politica, a volte approfondendo i temi del razzismo e delle migrazioni. “Speriamo che lo trattino bene”, sottolinea: “Un aiuto è arrivato dalla stampa di Stoccolma, sempre attenta, e più di recente dall’assegnazione del premio-riconoscimento della Fondazione Edelstam, che ha contribuito a dare al caso una risonanza internazionale”. Nella motivazione della giuria, comunicata nel novembre scorso, si evidenzia il “coraggio straordinario” di Dawit, che ha sfidato le “intimidazioni” e le “minacce” del governo con gli “interrogatori continui” e si è impegnato per i “diritti umani” andando sempre oltre il “proprio interesse personale”.
Ma cosa si può fare oggi per aiutarlo? “Credo, e non solo per mio padre”, risponde Betlehem, “che la cosa più importante quando un governo come quello dell’Eritrea detiene giornalisti nelle sue prigioni sia raccontare le loro storie, parlare di loro”.

La figlia di Dawit non perde la speranza. “Sono certa che sarà liberato”, dice. “Io e la mia famiglia non siamo soli: molti eritrei stanno lottando insieme con noi contro quello che io definisco un governo marxista e fascista; e i regimi fascisti e autoritari alla fine cadono sempre”.

Secondo Betlehem, insomma, “la democrazia prevarrà”. Intanto i giornalisti si impegnano a fare il loro lavoro, rischiando in prima persona. Alcune settimane fa, l’organizzazione Reporters sans frontiers (Rsf) ha sottolineato che la regione più pericolosa al mondo per i cronisti è la Palestina, nel mirino dei raid di Israele: almeno 154 i reporter assassinati dal 7 ottobre 2023.

“Il mio cuore è con questi colleghi”, dice Betlehem. “Ciò che sta accadendo è molto triste anche se in un certo modo non deve sorprendere: i giornalisti sono i primi ad andare, i primi a essere imprigionati, presi in ostaggio o uccisi”. Quello della reporter con origini eritree è anche un appello: “Credo sia importante che ciascuno, a livello individuale, si impegni nel lavoro quotidiano per una società migliore”. E poi, come categoria. “Noi cronisti dovremmo difenderci di più e meglio”, dice Betlehem: “Vediamo che anche in Europa spesso i politici non ci tutelano e permettono anzi censura e minacce”.