Nelle ultime settimane a Piacenza si sono verificati diversi episodi di risse tra gli studenti fuori dalle scuole. Poco tempo fa un quindicenne è stato accusato di avere spinto giù dal terrazzo una tredicenne e di averne provocato la morte. Nell’ultima di queste risse, mentre due ragazzi stavano litigando, un terzo è intervenuto ed ha colpito con un coltello uno dei due. Per fortuna la ferita non era grave, ma si è diffuso a livello di opinione pubblica una crescente preoccupazione e un interrogativo su cosa sia giusto fare per dare una risposta al problema. Una classe dell’istituto dove si è verificato l’ultimo episodio ha deciso di scioperare e poi è stata seguita da altre. Questi ragazzi hanno deciso positivamente di non stare a guardare, ma di porsi il problema e invitare tutta la società a interrogarsi ed agire. Penso che la situazione di Piacenza sia abbastanza comune a diverse realtà.
Per i motivi prima scritti in questi giorni i media hanno dato spazio all’iniziativa dei ragazzi e delle ragazze dell’Isii Marconi di Piacenza contro la violenza; mi viene da pensare che questo esempio dovrebbe essere seguito anche dagli adulti, che invece spesso stanno zitti, salvo poi lamentarsi dei giovani.
Dunque, da una parte abbiamo le spese per le guerre che aumentano a dismisura sino a far dire al neo segretario generale della Nato, Mark Rutte che ormai “è ora di passare a una mentalità di guerra”, aggiungendo che è necessario aumentare ulteriormente il bilancio delle spese militari dei Paesi Nato, recuperando ulteriori risorse a questo scopo “dalle pensioni, dalla sanità e dalla previdenza sociale”. Dall’altra parte abbiamo in Italia l’istruzione, la sanità e le spese sociali che piangono per i continui tagli.
Cito un aspetto che riguarda le carceri dove i giovani che vi entrano non possono trovare speranza di un recupero. A Piacenza (ma credo che sia la stessa cosa in tanti istituti penitenziari d’Italia) per centinaia di carcerati esiste una sola psicologa che evidentemente, vista la sproporzione tra il bisogno e quello che lei può fare, è una goccia nel mare.
Siamo pronti a lamentarci quando la società produce malessere e problemi gravi, ma non decidiamo di investire dove ce n’è bisogno.
Però … però la società è in grado di fare molto, soprattutto se ascolta quanto di buono esprime la sua parte migliore. Lo sciopero prima citato è un’ottima notizia, poiché dimostra che non è vero che i ragazzi se ne fregano di quanto succede. Avrebbero bisogno di una scuola che li abitui a discutere e a confrontarsi e che li metta di fronte al fatto che i conflitti sono naturali ma non si risolvono con la violenza, né verbale né fisica. Credo che i ragazzi dell’Isii abbiano giustamente detto che la soluzione del problema debba venire da loro, dalla comunità scolastica in collaborazione con la società intera. La soluzione non può essere delegata alle forze dell’ordine, il cui intervento deve essere un’eccezione.
Spesso nelle scuole si abitua poco i ragazzi a discutere, ancora si pensa che ci sia bisogno di più impegno nozionistico invece di formare delle teste ben fatte. Infatti sostiene Edgar Morin, riprendendo una frase di Michel de Montaigne “E’ meglio una testa ben fatta che una testa piena”.
Chiediamo ai ragazzi di riflettere e discutere sulle possibili soluzioni a quanto sta avvenendo. Le soluzioni si trovano insieme e qualcosa di discusso invece che imposto trova sempre più accoglienza.
Sono coordinatore nazionale di un progetto che invita le classi a individuare un problema, poi preparare un progetto (che abbia al centro il metodo nonviolento) per risolverlo o quantomeno a ridurne le conseguenze negative. Dopo avere attuato il progetto nel corso dell’anno, c’è un confronto con le altre classi di tutta l’Italia per scambiarsi le esperienze.
Naturalmente diventa difficile, per una società che certo nonviolenta non è e anzi continua a considerare le guerre come strumenti inevitabili per risolvere i conflitti tra le nazioni, essere credibile e d’esempio per i ragazzi. Purtroppo si stanno moltiplicando anche i casi di classi e scuole coinvolte in visite a caserme con “lezioni di combattimento corpo a corpo”, come successo recentemente alle scuole di Brindisi.
Di altro c’è bisogno. Occorre che i ragazzi sperimentino la risoluzione dei confitti senza la violenza. E questo dovrebbe essere un compito della scuola.
Poi il compito di crescere ed educare i giovani dovrebbe essere svolto collettivamente da tutta la società, utilizzando ogni spazio e i momenti sociali dove i giovani trovano accoglienza.
Un proverbio africano dice che per educare un bambino serve un intero villaggio. Ma dobbiamo costruirlo, questo villaggio, come condizione per educare.
Quindi nessuno può chiamarsi fuori. Certamente nel villaggio ci deve essere la scuola con un rinnovato spirito, ma ci devono essere anche tutti gli spazi e agenzie che stanno in ogni quartiere – società sportive, centri educativi, parrocchie, agenzie religiose, associazioni culturali e ricreative, ecc …
Vanno ripresi anche quei progetti che prevedevano, per esempio, che i negozianti disponibili ad aiutare bambini in difficoltà avessero adesivi appositi esposti sulle vetrine. Da tempo penso che occorrerebbe un riferimento (penso al Comune in collaborazione con altri) che riunisse i soggetti in Tavoli di confronto. Si dovrebbe pensare anche a una formazione per tutte le persone coinvolte. Da questi tavoli dovrebbe uscire un rinnovato patto educativo con delle regole di convivenza che dovrebbero valere dovunque, dalla scuola al campo sportivo. Più nessun genitore sugli spalti dei campi dovrebbe incitare alla violenza o insultare. L’allenatore dovrebbe dare l’esempio soprattutto per quanto riguarda la correttezza e la sportività.
Roberto Lovattini, maestro, costruttore di pace, formatore