Riceviamo e pubblichiamo dal blog della giornalista Giancarla Codrignani, già presidente della LOC:

Al pacifismo spesso manca la conoscenza di quella prevenzione dei conflitti che si acquista solo con la conoscenza della storia, purtroppo intessuta di guerre.

Quello che è successo in Corea in questi giorni testimonia la volontà democratica di un paese che ha molto sofferto a causa di una guerra che la spezzò in due, conseguente al conflitto tra le due Grandi Potenze, oggi in declino, ma ancor più competitive di fronte al potere globale a cui altri stanno aspirando.

Contemporaneamente sembra inesorabile il contagio del demone bellico, che dal 24 febbraio di due anni fa si è diffuso in Europa in maniera del tutto prevedibile, se è vero che per spostare un esercito a invadere la terra altrui, ci si impiega almeno un paio di settimane e i controlli elettronici e satellitari hanno avuto tutto il tempo per avvertire.

Ma i poteri forti restano sempre sfuggenti: forse andrebbero almeno disturbati, se “dal basso” si facesse politica e si andasse a votare.

Il demone contagia forse ancora una volta la Corea ?

La guerra di Corea c’è già stata, è quella del 1950, finita, male, nel ’53: dopo la sconfitta del Giappone i vincitori avevano deciso la ripartizione del 38° parallelo, definendo il Nord zona di occupazione sovietica governata dal comunista Kim-il-Sung e il Sud area di protezione americana affidata al poco liberale Singman Rhee.

La guerra fredda, come si sa, era iniziata da un pezzo e – sorvoliamo sulle ragioni per cui era incominciata – divenne una guerra reale a danno delle due parti di un paese unico.

Due anni dopo anche il Vietnam, già colonizzato dai francesi, finì diviso tra un Nord socialista assistito dall’Urss e un Sud protetto dall’ombrello americano. Sennonché la guerra di Corea, finita senza un vero trattato di pace, produsse la divisione permanente tra il Nord contro il Sud, una ferita lacerante perché la divisione ideologica aveva separato famiglie che non si sarebbero più riviste nel paese spezzato che voleva restare unito.

Invece la guerra del Vietnam durò vent’anni, il popolo non si lasciò dividere e oggi è un Paese come gli altri.

Questa diversa conclusione fu possibile perché il mondo si era alzato in piedi, sdegnato per la crudeltà e le stragi contro un popolo di contadini che aveva resistito fino a sconfiggere sul campo gli Stati Uniti d’America, ridotti all’umiliazione dell’armistizio e dell’ambasciatore in fuga con la bandiera americana ripiegata. Nonostante la palese vittoria di Ho Chi Minh, gli Usa continuarono i bombardamenti, ma prevalse la volontà di autodeterminazione del popolo indiviso.

Non fu solo un miracolo: i vietnamiti ce la fecero perché il mondo si era ribellato ad una guerra palesemente ingiusta: dall’istituzione del Tribunale Russell e gli appelli di Nobel e intellettuali alla disobbedienza civile dei giovani americani disertori in Canada per non andare a combattere contro un popolo che voleva essere libero, il Vietnam divenne passione, patriottismo condiviso, scuola di indipendenza. Un’intera generazione visse un’esperienza radicale.

Per la Corea non era successo: ancora oggi ne vediamo le conseguenze. Mentre il Nord in più di settant’anni ha subito una clausura che nemmeno i cellulari riescono a superare e nessuno ricorda più la filosofia juché, sconfitta dalla scelta nucleare, la Corea del Sud ci sta dando una lezione di democrazia.

Infatti i sudcoreani si sono precipitati a difendere il loro Parlamento e il Parlamento ha difeso la faticosamente imparata indipendenza istituzionale contro l’imposizione della legge marziale da parte del presidente Yoon Suk-yeol.

Un premier che non può giustificarsi per l’eccessiva preoccupazione per movimenti di connivenza con il dittatore Kim Jong un, con cui probabilmente ben pochi sudcoreani simpatizzano, mentre resta la memoria di ciò che resta della vecchia “guerra di Corea”.
Si sono verificate anche recentemente forme di provocazione (“bombardamenti con palloni pieni di immondizie”) e minacce che, nel corso dei decenni, si sono alternate a tentativi di dialogo prima o poi falliti.

Perché la questione coreana non è superata: ci sono nonni, forse bisnonni che non conoscono i nipoti e viceversa.

Un premier dispotico si è permesso la follia del golpe, mentre noi europei – che ci crediamo lontani dall’Asia – assistiamo contestualmente al coinvolgimento in Ucraina di soldati nordcoreani e vediamo riesplodere i problemi, rimossi, dello smantellamento, alla fine della prima guerra mondiale, dell’impero ottomano.

Stiamoci attenti: il Sudest asiatico ha già sensibilizzato la Nato, si eseguono manovre in acque vicine a Taiwan, non sappiamo se Trump amerà o no i cinesi.

La Corea, in quanto popolo, non vuole certo tornare ad essere pedina di giochi altrui.
Nemmeno noi europei, purtroppo incapaci di prevenire i conflitti quando non sono ancora diventati guerra.