“Mi sento come una persona che è uscita dal fuoco ed è entrata in frigorifero” mi dice Suliman al telefono, rispondendo al mio “Come stai?”. Eh sì, al Cairo sta cominciando a fare un po’ freschino, la temperatura può scendere fino a 10 gradi.

Circa la domanda di asilo, eccoli già nelle pastoie della burocrazia egiziana: si va all’Ufficio Migrazione e cisi sente dire che per prendere l’appuntamento bisogna telefonare, si torna a casa con un numero e si comincia a chiamare, finora invano. “Si deve telefonare ma non rispondono” è la laconica sintesi di Suliman. Questa lentezza estrema costringe gli “aspiranti richiedenti” a trovarsi un alloggio e anche per questo ci sono al Cairo tante case vuote che vengono affittate a prezzi non esosi. “Devi prenderla perché i mesi sono tanti”. Fatima e Suliman nel frattempo la casa l’hanno cambiata (“cambiato palazzo e siamo andati altro palazzo”): non so perché, ma il fratello l’ha cercata e l’ha pagata per un mese. Spero che anche qui trovino cittadini sudanesi, lo spero soprattutto per Fatima che nella casa precedente aveva incontrato donne che un po’ già conosceva, e “loro chiacchierano” mi diceva Suliman. Ma forse al Cairo è impossibile non incontrare sudanesi: in tutto l’Egitto ce ne sono al momento ben 12 milioni.

E la situazione in Sudan? “Cominciata guerra di nuovo” mi dice. In realtà non era mai finita, ma sta prendendo nuovo vigore e si aprono nuovi fronti. C’è di nuovo guerra ad Al-Fashir (ciò significa che quella capitale del Darfur continua a resistere eroicamente ai Janjaweed), a Khartoum (come sarà ridotta la bella capitale del Paese?); ora c’è la guerra anche nel nord Sudan – ad Abara, a Dòngola. I Janjaweed ammazzano la gente, violentano le donne, prendono la roba. In non so quale città hanno rapito alcune donne e le hanno portate in Nigeria. Cose che fa male sentire, che ci fanno ricordare che la guerra è “questo”: è la fine del rispetto reciproco, è l’opposto del rispetto reciproco, è odio, disprezzo, cosificazione dell’avversario e sua “eliminazione” (bruttissimo termine, ormai ahimé normalizzato, che a sua volta cosifica le persone umane). E nelle guerre degli anni 2000 l’avversario non sono solo i soldati, ma anche il popolo, la gente – uomini, donne e bambini.

Molti sono i Paesi che aiutano i Janjaweed, organizzati nelle cosiddette Forze di Supporto Rapido: gli Emirati Arabi, il Ciad, e tanti altri Paesi vicini. “Praticamente tutti tranne l’Egitto,” precisa Suliman; ma anche la Francia li sostiene, e i suoi aiuti li manda attraverso gli Emirati. Gli aiuti consistono negli armamenti: vengono inviate armi moderne, più potenti e sofisticate di quelle in dotazione al governo sudanese. E ora i Janjaweed sono muniti anche di droni. Ma la notizia importante che Suliman tiene a darmi è la seguente: pochi giorni fa dal valico di Adre (sul confine Ciad-Sudan, vicino alla città darfuriana di Jenina) sono entrati settanta camion con tanto di simbolo “Onu” sulle fiancate: fingevano di portare risorse alimentari per i rifugiati nei vari campi profughi e invece portavano armi alle Forze di Supporto Rapido! Erano accompagnati da due ministri degli Esteri – del Ciad e della Francia. Arrivavano dagli Emirati, che sono appoggiati e riforniti dalla Francia. Mi chiedo: come e quando potranno finire guerre così intricate e con così tanti Paesi coinvolti? E anche: quante armi possono stare dentro a settanta camion e quanto dureranno?

Dei 18 Stati che compongono il Sudan ben 15 sono al momento nelle mani delle Forze di Supporto Rapido. La città di Al-Fashir – l’unica città del Darfur che ancora resiste ai Janjaweed che da mesi la circondano- ha ricevuto finora aiuti alimentari dal governo, lanciati dagli aerei. “Ma adesso finisce” commenta Suliman. Gli amici li aggiornano con le ultime notizie, specie quelli che stanno ancora in Sudan. Quanti sono?

Alcuni non hanno soldi per andare via e sono tanti. Qualcuno nel frattempo è morto, qualcuno si è ammalato, qualcun altro già lo era, e c’è chi ha visto morire i propri figli e portare via le proprie figlie. Gli chiedo dei suoi fratelli. ll fratello medico è riparato in Uganda. Non dimentico che questo fratello subì un attacco dei Janjaweed alcuni anni fa in Darfur dove viveva: il suo autista fu ucciso e lui ferito molto gravemente a una gamba dovette fare numerose operazioni (per non arrivare comunque mai a ristabilirsi del tutto). Suliman gli rimase materialmente accanto per mesi e mesi. Il fratello ingegnere si trova al momento in Libia, ma il terzo fratello, maestro, è rimasto a Nyala, città al momento pericolosa perché completamente in mano ai Janjaweed e isolata dal resto del Darfur anche materialmente perché “non c’è strada per uscire fuori”.

Distrutte anche le strade e i collegamenti. Gli chiedo – nella mia ingenuità – se è rimasto per poter fare scuola: no, la scuola non funziona; è rimasto perché con il ricavato di tutte le vendite che ha fatto (macchina, frigorifero, animali …) è riuscito a far partire tutta la sua famiglia ma non sé stesso. La moglie e i loro sette figli, tre maschi e quattro femmine, sono andati in Egitto, in una città a 190 Km dal Cairo e lui è rimasto nell’assediata Nyala. Con lui, circa il 20% degli originari abitanti di quella città, mentre l’altro 80 % sta fuori. Gli chiedo se possono trovare i viveri, se c’è qualche mercato cui far riferimento. “Ci sono mercatini, però non è come prima, ” mi risponde. “I Janjaweed – conclude – fanno tante cose non bene per queste persone, ma è così.”

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