Rosalia Sinibaldi, nobile fanciulla imparentata coi re normanni, visse realmente in Sicilia nel dodicesimo secolo; fuggì da casa per eludere una sgradita promessa di matrimonio, decisa, come allora accadeva, a sua insaputa, e si ritirò in eremitaggio fra le grotte della Quisquina e del Monte Pellegrino.
È leggenda invece il ritrovamento ad opera di un cacciatore delle sue ossa miracolose, la cui esposizione in processione avrebbe arrestato la terribile peste del 1624. Ad ogni modo, da allora la città le dedica il 14 luglio fastose cerimonie, con danze, cori, un immenso carro di cartapesta diverso ogni anno e giochi pirotecnici, cerimonie giunte alla quattrocentesima edizione e note come il festino (i palermitani amano, quanto più un fenomeno è grandioso, tanto più rimpicciolirlo – così, ad esempio, la fuitina o rapimento della ragazza desiderata, l’ammazzatina e altro).
Ma il culto della Santuzza si esprime anche con edicole votive negli angoli del centro storico, murales nei quartieri di periferia, l’acchianata (salita in ginocchio o a piedi scalzi) al santuario presso la grotta del sacro monte, pitture sui carretti da trasporto e icone sui motocicli (le lape) e, più di recente, con tatuaggi perfino.
Durante una delle ultime occupazioni delle scuole, gli studenti hanno realizzato un adesivo con la scritta “Rosalia, libera Palermo dai fascisti” (ma forse questo è un miracolo impossibile perfino per la Santuzza!) e da qualche anno esiste un movimento femminista, “Nessuno tocchi Rosalia”, che realizza flash mob contro la violenza sulle donne in Piazza Politeama. E su un camion coloratissimo del Palermo Pride del 2011 si leggeva: “Contro l’omofobia, Santa Rosalia pensaci tu”.
Anche molti migranti venuti a stabilirsi in Sicilia pregano la Santuzza: tanti gli africani di religione cattolica, ma soprattutto i Tamil e gli induisti in genere, che sempre annoverano nel loro affollato aldilà le deità locali.
In realtà, la santa – protettrice della città insieme a Benedetto il Moro, un frate di origini africane vissuto nel Cinquecento – è l’erede dell’antichissima venerazione delle dee madri, da Ishtar a Iside, da Astarte e Cibele a Demetra, una religione che ha seguito un lungo percorso dall’Africa alla penisola balcanica fino a tutte le coste del Mediterraneo e si è concretata anche nel culto delle madonne nere, come quella di Tindari. Nella grotta di Rosalia, infatti, sulla parete di destra, si nota una vasta nicchia rettangolare che pare sia stata l’altare della divinità fenicia Tanit.
Dunque, attorno a questa figura è venuto nei secoli cristallizzandosi un poliedrico immaginario collettivo nonché un complesso quadro antropologico, di cui un’avvincente mostra fotografica, inaugurata qualche giorno fa e visitabile fino al 9 febbraio dà conto: Rosalia, santa patrona e dea madre di tutti i popoli, appunto.
Siamo in uno dei luoghi più suggestivi della città, l’Archivio Storico Comunale, progettato nel quartiere ebraico con la struttura di una sinagoga dall’architetto Giuseppe Damiani Almeyda nel 1881. In 16 teche illuminate sono disposte le foto in bianco e nero e a colori, corredate dalle riproduzioni di pagine del grande quaderno in cui i fedeli, all’ingresso del tempio su Monte Pellegrino, hanno lasciato propria memoria, esprimendo gratitudine per una grazia ricevuta o richiedendone una nuova.
E proprio guidati da queste frasi, didascalie quasi, cominciamo ad osservare le immagini. C’è chi è senza casa e/o senza lavoro, chi soffre di gravi malattie o depressione post partum. Dagli errori ortografici e dal bisogno impellente si intuisce che molti sono davvero poveri.
Ma ci sono anche riflessioni da cui si evince cultura, come questa: “Ti prego, Santa Rosalia, liberami dal senso di solitudine, aiutami ad avere una mente sana e positiva, ad avere fiducia in me stessa e negli altri […] aiutami a pensare autonomamente”. Una bambina scrive: “A me piace la tua casa perché è una montagna e mi piace la natura”. E un’altra donna: “Che ci sia sempre acqua per tutti gli esseri viventi della terra, che l’acqua purifichi e nutra”.
Un gruppo di operai chiede la revoca del licenziamento, altri hanno lasciato fra gli ex voto i propri caschi per essere scampati a un incidente sul lavoro. Nell’ultima teca le curatrici, su un foglietto che si può sottoscrivere, hanno vergato a penna: “Rosalia, ferma il genocidio del popolo palestinese”.
Sì, perché l’artista che espone, Melania Messina, è una fotografa “militante”, o, come più ci piace dire, una mediattivista: il suo sguardo, il suo obiettivo sono in ogni occasione strumenti di denuncia e di impegno solidale.
Nata a Palermo nel 1959, ha studiato a New York e lavorato in Indonesia e a Milano, prima di tornare nel 1992 nella sua città, dove ha testimoniato l’immigrazione femminile, collaborato al “Laboratorio Zen Insieme”, denunciato la violenza domestica nel progetto “Silenzi interrotti”.
Fa parte dell’Associazione Donne Fotografe con la quale ha realizzato diverse iniziative, tra le quali: donne che fotografano donne, “proteste sociali”, “scolpite” sulla statuaria pubblica. Ha realizzato varie mostre sull’esclusione sociale in Sicilia. Ha ricevuto molti riconoscimenti, anche dall’Associazione Libera. Attualmente è impegnata in un progetto in Veneto sul patrimonio culturale dei piccoli borghi.
Nelle sue immagini è evidente la fortissima carica di empatia verso chi tira la vita coi denti o chi trova comunque il sorriso in stradine dirute tra case fatiscenti, soprattutto verso donne e bambini. Commoventi le foto della devozione nei pressi del santuario: i piedi nudi della donna inginocchiata, il contorcimento dell’uomo sulle scale che chiede l’elemosina, i visi stanchi per la fatica della strada dei bimbi; o ancora quelli ridenti delle bimbe incoronate di rose, che indossano il saio durante la processione in corso Vittorio; gli interni delle case e i vicoli che ospitano altarini zeppi di rosalie e madonne, ai limiti di un politeismo che ricorda la santeria…
E c’è l’ammirazione affettuosa per la natura: grandi foto ritraggono il laghetto e il gorgo sacro, da cui nasce il ruscello dell’acqua benedetta che fluisce nella grotta, e sembrano tele a olio di un pittore impressionista tanto è delicato e attento l’occhio che si poggia sull’acqua o, più oltre, in un’altra immagine, tra le foglie votive ai piedi di una edicola dipinta.
Amore per i popoli, amore tra i popoli, amore per la natura, un buon auspicio per il nuovo anno…