Fine anno, di una cosa siamo certi, quest’anno le manifestazioni per la Palestina, a Milano, sono state 52, forse una meno, perchè in concomitanza ce ne fu una nazionale, a Roma.

Certo se uno ripensa alle primissime, con migliaia di persone, un’energia straordinaria che sembrava presagire ad un movimento mondiale stile Vietnam, stringe il cuore, ma se si pensa che solo a Milano si è riusciti a dare questa straordinaria continuità… Comunque c’è da dire grazie a tutti quelli e quelle che ci sono ancora, che tengono duro, resistono.

Stavolta ci saranno poco meno di 500 persone, per metà di origine araba, per metà di origine italiana. Lo si capisce quando gli slogan sono in arabo; ma è indicativo il fatto che ci sono diversi italiani i quali, dopo le innumerevoli presenze a questi sabati, sanno rispondere agli slogan in “lingua originale”.
Sugli slogan gridati oramai il repertorio è vastissimo, se si è inventato in media uno slogan ogni due cortei, vuol dire che ce ne sono più di 30 da inanellare, e quando parte uno slogan tutti oramai sanno come completarlo.

Dal camion si inizia con un lungo intervento, mi avvicino per capire chi parla, ma è una voce registrata, è quella di Mohammed Hannon che ha avuto un foglio di via e per sei mesi non puo’ tornare a Milano. Chissà che un giorno, tra fogli di via e obblighi di residenza, non siano le compagnie ferroviarie o autostradali a lamentarsi.

Il suo, come gli altri interventi, si potrebbe immaginare che non abbiano più nulla da dire, e invece no, questo è il dramma: ogni volta c’è una nuova tragedia da descrivere, una situazione che supera quelle precedenti, e ora il freddo che cresce. Si muore, si muore, si muore.

Giornalisti, medici, operatori sanitari, bambini, ragazzini, donne, anziani e certo anche qualche uomo, forse combattente, forse solo padre di famiglia, chi lo sa…

Milano non risponde, dalle finestre pochissimi si affacciano. Le grida salgono, ma sembrano non trovare orecchie. Quando finisce tutto ancora salgono alte le grida dal camion, ma c’è solo la facciata del Politecnico chiuso, ad ascoltare.

Dal centro sociale Vittoria, quello dove si sono svolti i più significativi incontri di questi 15 mesi per la Palestina, si denunciano le azioni notturne che hanno colpito simboli della resistenza palestinese appesi fuori dal loro centro. Dicono che hanno ricevuto anche minacce, ma non faranno mezzo passo indietro: tutta la piazza è con loro.

Alla fine, sciolto tutto, la componente araba resta in piazza, come sempre accade; hanno voglia di stare insieme, di continuare, di stringersi, di scaldarsi, di resistere. Un folto gruppo di uomini e ragazzi, in cerchio, alternano slogan e musica. Poco lontano, diversi capannelli di donne, divise quasi per età, affiatate, parlano tra loro, sembrano non avere nessuna voglia di salutarsi.

Ci allontaniamo, sono da poco passate le 17, ora della preghiera; sull’erba, sotto un grande albero, un gruppetto prega, puntuale, inginocchiato sopra le bandiere palestinesi.

Il prossimo sabato sarà già nel nuovo anno. Quanti propositi abbiamo? C’è solo l’imbarazzo della scelta.