La proiezione del film documentario “Nu guo – Nel nome della Madre”, si è svolta a Firenze domenica 24 novembre nell’ambito del 7° festival “L’Eredità delle donne”.
L’autrice di questo prezioso documentario, Francesca Rosati Freeman, ha vissuto per molti mesi, nell’arco di 10 anni, presso la popolazione Moso e ha potuto osservare e sperimentare in prima persona il matriarcato, in una società che da millenni è libera dalla violenza, sia per le persone che per l’ambiente, dove le pratiche decisionali sono orizzontali e non verticistiche, dove i bisogni di tutt* sono rispettati, sia a livello economico che spirituale, dove si vive nel rispetto dei ritmi della natura, in connessione con i suoi cicli.
Il suo proposito è di diffondere la conoscenza di questo tipo di società e creare connessioni, approfondire studi e pratiche, creare reti locali e realtà alternative ai paradigmi patriarcali di dominio; ha creato un gruppo che è attivo su facebook per riunire donne che si vogliano incontrare per approfondire questi temi, connettere persone, associazioni, e mettere in evidenza azioni che rispecchino i valori del potenziale creativo materno: cura, nutrimento, accoglienza, ascolto, affettività, reciprocità e condivisione, circolarità, inclusione, senso del sacro, equità, solidarietà, pace, benessere, potere creativo, saggezza.
Ci puoi dire quali sono le principali differenze tra il matriarcato dei Moso e il patriarcato della nostra società nel modo di vivere quotidiano?
Si tratta di due tipi di società con paradigmi completamente diversi. L’organizzazione familiare matrilineare della società Moso si contrappone al modello patrilineare. Le Dabu cioè le madri sono alla guida della famiglia e della società, sono loro che organizzano le attività quotidiane e agricole tenendo conto delle abilità dei vari componenti familiari. Nel prendere le decisioni si applica la pratica del consenso sia in famiglia che nella società. Si discute fino a quando non di arriva ad un accordo. Le relazioni fra i vari componenti familiari sono armoniche, tutti collaborano per la prosperità della famiglia. Le coppie non abitano insieme ma passano la notte insieme per separarsi all’alba. Non può esserci violenza coniugale poiché i due partner non abitano sotto lo stesso tetto. I Moso preferiscono separare la vita amorosa dalla vita familiare. Il matrimonio o la convivenza vengono considerate come un attacco alla famiglia matrilineare da cui il padre viene lasciato fuori. I figli appartengono al clan materno. In questo tipo di famiglia le donne con bambini non si ritrovano mai da sole a crescere i figli e se si separano dal proprio partner non è mai un dramma. I Moso sono monogami ma non promettono mai fedeltà eterna, l’amore non è inteso come possesso della persona amata e la gelosia viene stigmatizzata.
Come stanno affrontando i Moso le ingerenze del governo cinese e del consumismo che sta progressivamente minando le loro tradizioni?
C’è divergenza di opinioni fra le persone anziane che restano ancorate alle tradizioni e i giovani che vorrebbero modernizzare la loro società. Gli anziani continuano a parlare la lingua moso per trasmettere la cultura tradizionale e i valori legati alla loro cultura. I giovani imparano a parlare e scrivere il mandarino a scuola e vorrebbero sentirsi integrati nei nuovi aspetti culturali introdotti dall’affluenza di un turismo di massa e da un’economia di mercato che forse non ha ancora del tutto rimpiazzato l’economia solidale tradizionale, che certamente non risponde più ai bisogni ma insegue il profitto. Siamo davanti a un tipico conflitto generazionale che meriterebbe di essere seguito perché se da una parte c’è una sorta di resistenza alle pressioni del governo, dall’altra i giovani sono attirati dai facili guadagni arrivati col turismo e con questo anche il consumo di alcool. Lo spirito di accoglienza della popolazione moso fa si che i turisti si trovino a loro agio e arrivino sempre più numerosi. Il turismo è diventato il motore della loro economia e ha permesso loro di migliorare le condizioni materiali e economiche, ma le conseguenze sono nefaste per i giovani e per la continuità della loro cultura tradizionale. Inoltre il governo fa pressione sui loro costumi perché vorrebbe uniformare i Moso al resto del paese obbligandoli a sposarsi: i bambini non potranno essere scolarizzati se i genitori non sono sposati. L’introduzione del matrimonio obbligatorio potrebbe portare a un cambiamento drastico della cultura moso e probabilmente un giorno ritroveremo solo dei residui di quella che un tempo era una società matriarcale a tutti gli effetti.
Vorremmo prendere ispirazione dal loro modo di vivere per immaginare una società “altra” da quella patriarcale, dove vige la legge del più forte, con conseguenze disastrose per la natura e per le persone, Francesca: come possiamo integrare l’insegnamento dei Moso nella nostra vita quotidiana?
Se ci dovessimo ispirare agli insegnamenti tradizionali Moso penso che dovremmo pensare a un nuovo paradigma della società basato sui veri bisogni, sulla solidarietà collettiva, sul rispetto dell’altro e della natura con la consapevolezza di appartenere ad essa; su una spiritualità connessa alla natura, sul considerare la terra che ci nutre come un dono sacro; su un’educazione non di genere e sulla libertà di amare. Questo unito alla pratica del consenso decisionale in famiglia e fuori ci aiuterebbe senz’altro a garantirci una vita armoniosa e pacifica e un sano rapporto con l’ambiente. Noi donne potremmo cominciare ad attingere alla potenza e all’autorevolezza delle nostre antenate, mettere in atto la nostra capacità di creare e gestire, aumentare la nostra autostima e riprenderci tutto quello che il patriarcato ci ha tolto.
Certamente non si può prendere tutto alla lettera da un modello esistente, ma prima di poter applicare qualsiasi insegnamento nella nostra vita quotidiana sarebbe auspicabile liberarsi dei parametri occidentali che considerano universali concetti come la famiglia, la maternità, la paternità etc. che presso i Moso assumono significati completamente diversi dai nostri.